giovedì 7 giugno 2012

Irene, Emma, Stefan...

Certo, verrebbe l’ingenua e candida voglia di cambiare titolo ad un libro, essendo in fondo le due opere del medesimo autore: Stefan Zweig, viennese, 1881-1942, intorno ai cui scritti il corteggiamento di Adelphi diviene sempre più serrato col tempo. Un libro di recente uscita, "Paura" (Adelphi, pp. 113, euro 10,00) è "tailor made" per il noto editore milanese che, su tanta Mitteleuropa e dintorni (ma, certo, non solo) ha costruito fama e rispettabilità. Racconto di media lunghezza, tutto intorno al tema girato e rigirato infinite volte, quello dell’adultera preoccupata che qualcosa possa tradirla all’interno di quella società altoborghese ove si è ritrovata per inconsapevole diritto ed ha di conseguenza sempre agito come un automa. Dov’anche il farsi l’amante, preferibilmente non rompiscatole, costituisce una sorta di rispetto dell’etichetta. Irene Wagner, la protagonista che, con spessa veletta nascondente, maschera l’identità ed affronta il mondo esterno uscita dall’antro dell’amante, dovendo incrociarsi il passo di lei con qualche portiera, magari qualcuno ch’ella conosce e potrebbe salutarla nonché porsi concatenate domande relative, è perfetta come figura, quivi frigidissima più di tant’altre, stampo di stampo di eroine in stile sachertorte alla Schnitzler, il quale, chissà mai perché, "fa" assai più Vienna dello Zweig. Ma sul punto controverso, quello delle dissomiglianze (nonché affinità), si tornerà. Restiamo al proposito iniziale, quello un po’ sadico di cambiare titolo al libro. Al posto di "Angst", paura (ma anche ansia, angoscia e dintorni), resa speditissima nella più che sciolta traduzione dell’esperta Ada Vigliani, fatta con i pennarelli acrilici (ma dove sono mai finiti i pastelli woolfiani di una Celenza?, non s’addicono alla viennesità?) si potrebbe sostituire il titolo che Zweig adoprò per un altro suo libro: "Brennendes Geheimnis", Bruciante segreto.


Pianista spiantato

Brucia, di certo, il peso che Irene deve portarsi dietro, da quando ha incontrato una ricattatrice, sotto casa dell’amante, un pianista che si sta facendo strada, "pur se in ambito ancora circoscritto", dunque disponendo – e questo certo non è un bene – di "finanze sregolate, di continuo oscillanti fra dissipazioni e ristrettezze", tutte cose che "irritavano in lei la sensibilità borghese". Poca cosa, tale irritazione, di fronte alla popolana oscena dall’alito fetido che le si para un bel dì quando Irene sta lasciando la casa di lui, nervosa, mentre "respingeva sbrigativa gli ultimi fuochi della sua passione". Popolana orrenda e dall’umile veste di lana che comincia a chiederle sempre di più, sempre più esosamente, fino a sfilarle – essendo penetrata in casa di lei – anche un anello la cui assenza certo il marito nota immediatamente. Ma siamo a questo punto quasi alle ultime battute, all’escalation dei ricatti, cui la povera distrutta Irene, sempre costretta a mentire, sempre obbligata a mostrare il volto lieto e sereno davanti a coniuge e bimbi inappuntabili allevati a "signorine", non trova di meglio che replicare: "L’ho mandato a pulire". Poco altro le rimane in testa, ormai: decisioni più drastiche sembrano invaderla, fino al finale a precipizio, "del quale, per una volta – come recita la quarta di copertina del volume – non sarà inopportuno dire che toglie il respiro". Dunque "Bruciante segreto", anzi no, scusate: "Paura" vera e propria, il che forse è anche peggio. In fondo, poi, il "Bruciante segreto" originale, quello del ‘14, combinava l’amorazzo in stile villeggiatura fin-dé-siecle con i turbamenti di un bambino, Edgar, che viene dato per fuggitivo ma poi ritrova la strada per casa, accolto in fine con letizia.


"Con misurato trionfo fu condotto nella stanza, ma come gli risultò strano non far caso a tutte le dure parole di rimprovero che gli venivano rivolte: nei loro occhi leggeva infatti la gioia e l’amore".


E poi il caldo letto, e il padre brontolone (cioè il coniuge tradito) ma bonario, e la madre del bimbo che supplica il figlio di non rivelare il suo peccaminoso flirt al padre. L’importante, per Zweig, è il nido d’amore protettivo, le bianche lenzuola, la casa arredata come classe comanda.


Un po’ di felicità

Tirata una linea di parallelismo, siamo anche alla fine felice della vicenda di Irene Wagner, la moglie del penalista ancora bello ma dal collo taurino e minaccioso, la quale – ed è il massimo che chiede – riesce a non abbandonare l’agio nel quale nuota come pesce in acquario. Eccola, l’Irene della "Paura", superati ostacoli e mali propositi ultimi (per una vicenda della quale ha mezza colpa), distesa sul finale


"con gli occhi chiusi, a godere in modo più profondo tutto quanto costituiva la sua vita e adesso anche la sua felicità. Dentro si sé provava un leggero dolore, ma era una sofferenza piena di promesse, ardente e dolce al tempo stesso, come le ferite che bruciano prima di cicatrizzarsi per sempre".


Il denaro e l’agio ritrovato (che nell’Edgar del "Bruciante Segreto" si traducono "solo" nelle gioie degli affetti e del perdono – di un bimbo pur si tratta) chiudono in un sospetto buonismo le trame di Zweig, quando lo stesso non si diverta, come in altre novelle, a mescolare l’amour fou con un esotismo che pur lo attrae (e anche assai di moda in quel periodo), risolto in una certa chiave espressionista (come nell’"Amok" del 1922). Ma in "Angst", risalente come prima stesura al 1913, a dominare è certo la silhouette di Irene, moglie e amante. Dei cui tratti nulla si sa. Oltre al fatto che in società appare bella o tale si sente:


"Perché ora, mettendo piede nella sala, sentiva dagli sguardi altrui che era bella, e il provare di nuovo tale sensazione dopo lunga astinenza accrebbe ancora più la sua bellezza".


Finalmente una donna alla Zweig-Schnitzler, una donna che però, fuori dal box del salotto di casa sua, è magari una sorta di "Cosa di carne" alla Rosso di San Secondo anche se aggiornata al jet-set viennese primo Novecento. Ecco Irene Wagner che, se depuaperata di quel nulla che per lei è tutto, si trascina "nella stanza vicina con passi da automa e la mente vuota". Vuole forse velare, Zweig, una denuncia d’una certa condizione femminile subordinata alla sovrastruttura imperante (cioè borghese) con questa sua creaturina dal peso piuma? Del resto "tutto nella vita le era infatti giunto in dono, e lei non aveva nemmeno cooperato a forgiare il proprio destino". Ma sì, è cosa di carne, paga dell’orto suo, oltretutto "d’animo un po’ freddo", che tiene all’amante pianista "come un terzo figlio o un’automobile": e qui siamo già alle automobili, permanendo ovviamente le carrozze, immancabile elemento multifunzionale dell’arredo urbano narratologico d’epoca (adatte per fughe, diorami notturni e per ammazzare la gente – come non ricordare il coniuge Curie ucciso da una vettura a cavalli in pieno giorno?). Chi si dimentica, del resto, della famosa vettura de "I morti tacciono" (1897) di Schintzler, padrone assoluto - alla pari di un Freud col quale ebbe qualche breve arzigogolato scambio epistolare di tono "scientifico" – dell’antropologia viennese in disfacimento, che il nostro osserva con occhio implacabile ove la consolazione finale è assente? Come scordare la carrozza che di sera si capovolge (anzi, si scontra "contro la cunetta") sbalzando fuori, nell’impazzimento centrifugo del triangolo proibito, Emma e Franz, quest’ultimo morto sul colpo, mentre lei – chissà se la disperazione di Emma è maggiore di quella di Irene Wagner – arranca a casa certo ricolma di "Angst" o, meglio ancora, di un "Bruciante segreto". Costretta, Emma, alla menzogna assoluta (come Irene) di fronte al marito, di fronte allo shock di una morte avvenuta solo pochi minuti prima. Ma se lo specchio rivela ad Emma un volto, il suo, "che sorride, crudele e con i tratti stravolti" (forse una quasi "Giuditta o Salomè" klimtiana, priva però d’oro bizantino e con un figlio assonnato da mettere a letto – i sempiterni bimbi che leggono e mangiano la minestra) ecco che un fondo, uno sgorgo di psyché (non affatto fuori luogo nello spazio e nel tempo d’allora, anzi, ansiosa d’esplodere) le fa confessare la verità che indomata risale. In fondo i morti tacciono. Il suo Franz, l’amante morto ancora caldo, non parlerà. Sarà la cosa di carne Emma a tradirsi non cosciente. Arthur il medico ipnotista scrittore, non può che osservare con indifferenza di ghiaccio la decadenza di lei. Stefan, il buono, recupera Irene, adultera anch’ella e sfortunata ma ingannata (il lettore saprà), confinata nel letto della dolce espiazione, inquadrata al mattino, mentre i figli cinguettano "come i passeri alle primi luci dell’alba" (doppio domestico, i figliolini, del chiaro riso di bimba della insuperata "Traumnovelle" per sempre schnitzleriana). E sarà un susseguirsi di signorine e domestiche e marito che si reca in tribunale come d’abitudine. Zweig, in vena di perdoni, si sforza di ricomporre quel caos ove pur avverti che restaurare significa incollare d’obbligo i frammenti. Irene Wagner, col denaro che la ricattatrice le estorce, può "comprarsi qualche giorno di pace, una parvenza di felicità". "Mi aggrappo a ogni ultimo brandello di libertà di cui possiamo ancora godere, pronuncio ogni mattino una preghiera di ringraziamento, perché sono libero, perché sono nel Regno Unito". Così Zweig-Irene, al culmine di quell’"Angst" che cercava di esorcizzare, scriveva da Londra al suo amico Joseph Roth. La fiction s’era già incarnata nel rogo nazista dei suoi libri del 1933.

mercoledì 6 giugno 2012

James, amare Londra nonostante tutto

Certo, di terremotatore vero e proprio non saremmo forse autorizzati a parlare, quando si tratti di Henry James, nome di tale importanza al quale ci si accosta in maniera reverenziale, al contempo essendo difficile resistere ad un seduttore letterario di tale immediatezza che simboleggia più di tanti altri la crisi della "victorian novel", non essendo nemmeno inglese, o magari inglese per sbaglio, quasi come un malato sulla soglia estrema che si converta alla religione all’ultimo istante utile. Il suo prendere la cittadinanza inglese (lui, l’americano straniero) il 26 luglio del 1915 è solo l’anticipo di una morte che non tarderà ad arrivare, il 26 febbraio 1916. Fu inglese a tutti gli effetti per breve periodo; o magari lo fu per tutta l’esistenza, o in gran parte di essa, in modo virtuale. Il recente volume "Ore inglesi" (Editori Internazionali Riuniti, pp. 319, euro 9,90) sta lì a testimoniarlo con la forza del capolavoro autentico. Tradotti fluidamente da Roberta Arrigoni, ecco a disposizione vari "saggi" (come un risvolto di copertina li definisce - ma è solo una delle tante possibilità) che vengono qui proposti per la prima volta in lingua italiana, perlomeno assieme. L’effetto, vi garantiamo, è sorprendente.


Impressioni

"Gli scritti compilati in questa raccolta – è lo stesso James a presentarli in una nota del 1905 – pubblicati inizialmente in diversi periodici, sono stati già ristampati". "Ogni saggio reca la sua data, e apparirà evidente che le impressioni e le osservazioni di cui essi in buona parte si compongono abbiano visto la luce in uno stadio iniziale del rapporto che li lega al loro argomento generale. Contengono un buon numero di suggestioni, giudizi ed emozioni, a volte legittimi, a volte fallaci". Non pare forse di udire reminiscenze di qualche saggio filosofico? Magari sulla "percezione", termine fondamentale nell’approccio sensista che domina nel dibattito letterario, soprattutto inglese, ben oltre il Settecento. La stessa poesia romantica, all’epoca della sua "fondazione", si può dire che si basi proprio su quelle "emotions recollected in tranquillity", se magari vogliamo rifarci al patriarca Wordsworth. E certo in quella sorta di "cross-over" vivente che fu James, in qualche modo c’è la reviviscenza dell’età dei Lumi, dove però l’illuminazione scenica è mutata. Viva, moderna, concedendosi a bagliori dichiaratamente pittorici, volentieri notturni. Londra è qui inesorabilmente, inevitabilmente "caput mundi", alla Woolf, che del resto non fece mistero della sua venerazione per James, celebrando la capitale, più che in altri luoghi, soprattutto in quel suo capolavoro sinistramente (ed erroneamente) considerato "minore" (o addirittura non considerato) che è "The Years".


Una di Hyde Park Gate

Certo che Virginia, una di Hyde Park Gate, non poteva certo percepire Londra (e il resto dell’Inghilterra) sulla scorta del nostro pellegrin fuggiasco, febbrilmente in viaggio, quasi con una pistola alla tempia, James, nella inesauribile opera di ricognizione e testimonianza. Siamo di fronte a "saggi", articoli, con queste "Ore inglesi", ma si adatta l’oggetto d’indagine a ciò che James pensava del romanzo (che, come si avanzava sopra, contribuì non poco a terremotare, a fare a fette, fino all’involuzione massimamente sperimentale, per citare un titolo, di "The Sacred Fount"): considerandolo - ne "L’arte del romanzo" – al pari di "storia". Insomma, "rappresentare e illustrare il passato, le azioni degli uomini, è compito sia dello storico sia del romanziere; la sola differenza che io possa vedere torna a tutto onore di quest’ultimo (in proporzione naturalmente alla sua riuscita) e consiste nelle maggiori difficoltà che egli incontra per raccogliere le prove, che sono ben lungi dall’essere puramente letterarie". Certo, qui, si parla di romanzo, genere visto come una sorta di faro sul "passato". Ma, quando è il presente che vada documentato, ecco che lo studioso, lo storico-romanziere e l’oggetto di studio vengono a coincidere. Con movimento inavvertibile ma costante, insomma, James fa emergere in primo piano, quale oggetto, non tanto la Londra presa come valore assoluto, ma se stesso, la "sua" Londra, la sua "Inghilterra". Non avremmo troppo dubbio in merito, anche perché usciamo rafforzati nella convinzione dal fatto che James presenti in sostanza, come si diceva sopra, "suggestioni, giudizi ed emozioni" che possono essere sia "legittimi" sia "fallaci". Ma su cosa si dovrebbero fondare legittimità o fallacia? Probabilmente sul dato, rilevato da Franco Cordelli in una sua prefazione al garzantiano "Giro di vite" che "l’arte non è, dunque, estetica allo stato puro". Anzi, l’arte "è per James il punto di convergenza dell’esperienza", seguendo qui Cordelli un saggio di Georges Poulet. Il che ci sembra prospettiva criticamente più stabile dell’ovvia mitizzazione dello scrittore eternamente girovago; elemento, quest’ultimo, certo da non trascurare, ma che andrebbe forse ricollocato in un quadro generale di più realistiche proporzioni (e utile ad una più chiara percezione dell’autore). Poiché è pur vero, ad esempio nello stupendo "Londra" che apre il volume (1888), che lo scrittore si definisce "l’esiliato", "lo straniero deciso ad amare la sua Londra costi quel che costi", che qualche riga sotto "si scopre completamente solo in una biblioteca fumosa". Ma la "missione" romanzesca, chiamiamola così, non gli deve impedire di narrare il vero. A partire dal "sudicio quartiere di Bloomsbury da un lato, e Soho, più sudicia ancora, dall’altro". Senza obliare che il diorama, la lastra della città, per essere il più esatta possibile (vale a dire, esattamente filtrata dall’occhio interiore che percepisce il fluire dell’esperienza), non potrà mancare di recare con sé lo spaccato socio-economico. Un po’ come se sotto Londra ci fosse dell’altro, a seconda dei punti di vista. Tanto che "gli scenari rurali" costituiscono "il vero sostrato della vita nazionale". Ma non basta: poiché, senza tema di cadere in contraddizione, James scrive che Londra è "sgraziata e brutale", è "come un’orca poderosa che divora carne umana". E ancora, in uno dei culmini orchestrali del pezzo: "Non ho la minima idea di quale potrà essere l’evoluzione futura di questo prodigioso mostro proteiforme; se i poveri prenderanno il posto dei ricchi, o se i ricchi spoglieranno i poveri di ogni cosa, o se gli uni e gli altri seguiteranno a convivere sulla stessa base instabile della loro relazione attuale". Restando in tutto questo una sorta di rumore di sottofondo, visto che "l’impressione di sofferenza è parte integrante della vibrazione generale". Anche se il tutto non è affatto male, rientrando nel dominio dell’esperienza. Dato che proprio la sofferenza, o meglio, l’impressione di questa, "è uno degli elementi che, unito a tutto il resto, produce quel suono che sta sommamente a cuore a colui che si ostina ad amare Londra: il fragore dell’impressionante fucina umana".


Ostinazione

Colui che si ostina ad amare Londra, certo, ma anche l’Inghilterra tutta. Con qualche lieve dubbio su quale oggetto (Londra o Inghilterra) sia maggiormente investito d’amore. Gli piace il Tamigi, benché un po’ squallido, cui magari non nega una luce, diciamo così, alla Monet, ma dichiara di preferirlo, tanto per non smentirsi, "quando si trasfigura e si dissolve nella città". Quello stesso fiume che, in uno scritto del 1877, gli offre inaspettati stati allucinatori, un "brivido immaginativo". Dato che i "pilastri mastodontici dei ponti, in particolare, sembrano a tutti gli effetti le colonne dell’impero". Ovviamente britannico. Occasione di escursioni frequenti. Talvolta sfocianti nel gotico, inteso come genere. A Canterbury scende nella cripta e brancola nella penombra. Gli elementi atmosferici intanto preparano il loro teatro: "Mentre mi trovavo lì, un violento temporale si abbatté sulla cattedrale; forti folate di vento e scrosci di pioggia spazzavano i lati aperti della cripta". Un effettaccio che sarebbe piaciuto anche a Chateaubriand con qualche probabilità. Anche se alla fine tutto viene sussunto in una più ampia unità, vale a dire "l’argomento generale" di cui lo stesso James, come già visto, discetta nella presentazione. Non solo temporali o non solo quella primavera di eterna sospensione ("niente pioggia – e men che meno sole"). Anche intervalli, come si apprende dai "Quadretti inglesi", di "luce e tepore e, in Inghilterra, un paio d’ore soleggiate strappate al maltempo acquistano una loro indipendenza e lasciano una traccia indelebile nella memoria". Quale compito nobile e gravoso, allora, sarà quello affidato alla scrittura. Sospesa in maniera inimitabile, perigliosa sempre, mai però priva di vigore, tanto da non essere certo una leziosa "metascrittura", anche se talvolta può sembrarlo. Del resto, nel regno della contraddizione provata (della scrittura stessa, alla fine), che si riflette nel foglio bianco da riempire, tanto potente è Londra come città, che "è l’unica che riesca a farti sentire in aperta campagna".

martedì 5 giugno 2012

L'ipnosi attraverso i secoli

Usa la definizione di "denso libro" Gianni Vattimo quando per "l’Espresso" recensisce "Suggestione. Potenza e limiti del fascino politico" di Andrea Cavalletti (Bollati Boringhieri, pp. 175, euro 15,00). Ove "denso" vale di sicuro per "complesso", "vasto" ma anche per troppo disinvoltamente quanto cripticamente "sciolto", tanta è la materia sottintesa e, paradossalmente, altrettanta è quella dragata con zelo, come si evince anche dai "Riferimenti bibliografici" posti in chiusura, soluzione che parrebbe escogitata per evitare - ma non si sa perché - le note a fine capitolo o a pie’ di pagina, quasi a volere dare fluidità maggiore alla trattazione, la quale comunque deve essere interrotta in continuazione, data la mole di exempla con cui l’autore imbottisce il suo prodotto. Un po’ libro di biopolitica (ma non del genere "Prigioni della mente" di A. Zamperini, Torino 2004), un po’ galleria erudita anche se la mano pittorica dell’autore non si sforza più di tanto nei tratteggi d’ambiente, pur non fuori luogo, visto che la carrellata parte dal Settecento e si ferma all’incirca all’Italia fascista, più agevole da prendere a simbolo delle pratiche ipnotiche messe in atto dai regimi dittatoriali.


Anche oggi…

Che, per il citato Zamperini non si esaurirebbero certo con la fine puramente nominale della dittatura stessa. Poiché l’ipnosi, la suggestione, sarebbero attive a pieno ritmo ai giorni nostri, e anzi, con tecniche maggiormente invasive, prive di scrupolo e massimamente illusorie. Insistiamo ancora sulle conclusioni di Zamperini: "Che resta di noi? Sembra che tutto dipenda dalla struttura che ci ha prodotti e che ospita le nostre azioni. Come se fossimo forza d’inerzia incarnata. Illusi di essere noi stessi mentre invece non lo siamo affatto. Sebbene continuiamo a scacciarla dalla mente, si insinua l’idea di una realtà ridotta a prigione pavloviana. Dove il pensiero viene sequestrato e si aspira a un’identificazione senza residui tra i singoli e il dettato della struttura. Un mondo di segnali a ciascuno dei quali è associata una sola e obbligata risposta. Una resa davanti al potere del sistema". Anche se, continua tra le macerie Zamperini, si manifestano qui è là degli "assenteisti" (evidentemente delle menti libere), che sarebbero dunque in grado di sottrarsi alla grande ipnosi. "Sulla scena allora non c’è solo un personaggio che si conforma supinamente a un copione prestabilito. Vi è anche un attore resistente. Impegnato nel compito di modificare il ruolo attribuito o addirittura di non ricoprirlo. La nostra analisi lascia così aperta una porta per una soggettività rivendicatrice. Intenzionata a dire di no all’autorità e ad affermare se stessa". Parrebbe indubbiamente strano il parlare di un testo, quello di Andrea Cavalletti, e dare così tanto spazio ad un libro di Adriano Zamperini. Eppure le conclusioni un poco sconsolate del secondo (che vorrebbe aggrapparsi alla speranza ma non indica una via verso di essa) potrebbero fungere da racconto, da scheletro, da "fabula" del trattato del primo autore. Ché Cavalletti parte da "Mario und der Zauberer", "Mario e il Mago" di Mann, novella del 1930 (tradotta in Italia almeno quindici anni dopo) per mostrarci, dopo un percorso in pratica di secoli, cosa fosse divenuta l’ipnosi (in questo caso di massa), dando principio alla sua trattazione a partire da vari nomi impolverati assai, come quello di Franz Anton Mesmer, autore di pubblicazioni quali "Mémoire sur la découverte du magnétisme animal", del 1779, o la "Lettre à un médecin étranger", 1775. E se si giunse a stabilire che il magnetismo era una favola, differenti furono i pensieri intorno all’"immaginazione", concetto non coincidente con proprietà invisibili e magari di più vasta pericolosità sociale o, rigirando la prospettiva, macchina di controllo sociale. Poiché a un fluido incontrollabile alla fine in qualche modo si credeva. Jean-Baptiste Moheau, in pratica uno scienziato "della popolazione" (è la disciplina che poi verrà definita come statistica), pubblicava nel 1778 le sue "Considérations" ove tratta di un "fluido immenso" che avvolge il nostro globo, penetrando dappertutto, anche nei minimi interstizi. E Nicolas Bergasse - un altro dei grandi semidimenticati ripescati da Cavalletti nella sua teoria di personalità per addettissimi ai lavori - parla, sempre in chiusura di Settecento, di odio e collera e paura, "passioni contagiose che si comunicano con una rapidità che ha talvolta del prodigioso". Ove si ha da notare che l’elemento irrazionale, il "prodigioso", è l’ultima scappatoia possibile concessa quando il vaglio critico non sappia farsi un quadro chiaro e definito dei fenomeni. Di massa specialmente.


I villeggianti

Stupisce che nel Novecento, nella località di villeggiatura italiana dove Mann si trova con i suoi, si dia credito, seppur in versione cialtronesca, al Mago, all’ipnotizzatore, al Mesmer novello, che in realtà non è morto mai, nonostante strumenti di misura che si reputavano aderenti alla conformazione della realtà fisica avessero confermato che la trasmissione invisibile di non si sa bene cosa fosse solo un’impostura. Come nota Vattimo, nella recensione sopra segnalata, "proprio con la scoperta che il mesmerismo e l’idea di un fluido trasmesso invisibilmente non hanno fondamento si comincia a parlare di suggestione, di diffusione di idee per una sorta di contagio prodotto dal potere dell’imitazione". La pratica cialtrona, proprio perché reputata tale, non viene in realtà fatta sparire, ma cambia, per così dire, di padrone. Non il mago imbonitore, dunque, ma un controllo superiore, una super-direzione, un occhio scrutatore e veramente ipnotizzatore. Der Zauberer di Mann è Mussolini, è il dittatore. E’ anche Hitler. Ernst Schramm, che si è occupato dei tiranni, parla, alla maniera vetusta, ancora un po’ alla credulona, da collasso dell’età dei Lumi, dello sguardo di Hitler, che "affascinava con i suoi occhi di un azzurro profondo, sempre lievemente sporgenti, occhi quasi brillanti". Ma questi possono ancora essere gli occhi del Mago Cipolla di Mann, dell’ipnotizzatore vecchio stile, non certo il fulcro dell’apparato di controllo di cui ci ha resi consci Foucault, come ricorda Cavalletti: "Dispositivo biopolitico di controllo della vita e di divisione continua di questa vita tra ciò che dal punto di vista dello Stato appare normale o patologico, pericoloso o sicuro". Alla fine della cura "statale", dovremmo avere la prigione descritta più o meno apocalitticamente da Zamperini. Nonostante qualche attore cominci a scuotere il capo, a ribellarsi dal copione obbligatorio.


Via di fuga filosofica

E anche per Andrea Cavalletti c’è modo di uscire dall’esperienza totale della cecità e dell’obbedienza. Innanzi tutto c’è il ricorso alla violenza: Mario uccide il Mago. Ma negli ultimi passi del trattato, col ricorso alla filosofia più che alla psicanalisi (che della suggestione spesso e volentieri si è servita), l’autore propone un rapporto anche più morbido fra ipnotizzatore e ipnotizzato. Con Heidegger che rilegge Aristotele ("Sull’essenza e la realtà della forza", tr. it. 1992) si introduce il concetto di "passività che vibra, priva di resistenza". Così che "la forza del suggestionatore si duplica e confonde nella spossatezza del sonnambulo, è in balìa della passività del suggestionato". Come se, a un tratto, nel processo stesso, le differenze si azzerassero, stabilendosi una sostanziale parità. Negli interstizi stessi della suggestione si nasconderebbe un sorta di risoluzione, per lo meno in via teorica. L’importante – ha sostenuto Cavalletti intervistato a novembre da "Repubblica" - è uscire dalla concezione "verticale" della relazione di dominio: "Se si accedesse a una dimensione dove passività e attività si confondono, come può accadere in un rapporto amoroso, allora non dovremmo temere un mondo dove ‘tutto è suggestione’". A dire il vero, e non temendo dunque di osare, ci piacerebbe esporre un nostro particolare richiamo ad un filone filosofico in qualche maniera correlabile a termini come suggestione, attrazione e affini. E’ la filosofia di Campanella e Telesio: ove gli esseri si trovano in un rapporto di "interazione" reciproca (la versione "buona" del mesmerismo, insomma). Ove "conoscenza" è in qualche misura "perdita" (e il suggestionatore scenderebbe dal podio, si depotenzierebbe). Ove non si esclude che l’uomo possa modificare tali rapporti tramite la magia. Con qualche sforzo, seguendo il filone, ci si può anche ritrovare sotto l’occhio incantatore del ciarlatano Mesmer. Ciarlatano o resuscitatore di un’antica tradizione proibita?