giovedì 7 giugno 2012

Irene, Emma, Stefan...

Certo, verrebbe l’ingenua e candida voglia di cambiare titolo ad un libro, essendo in fondo le due opere del medesimo autore: Stefan Zweig, viennese, 1881-1942, intorno ai cui scritti il corteggiamento di Adelphi diviene sempre più serrato col tempo. Un libro di recente uscita, "Paura" (Adelphi, pp. 113, euro 10,00) è "tailor made" per il noto editore milanese che, su tanta Mitteleuropa e dintorni (ma, certo, non solo) ha costruito fama e rispettabilità. Racconto di media lunghezza, tutto intorno al tema girato e rigirato infinite volte, quello dell’adultera preoccupata che qualcosa possa tradirla all’interno di quella società altoborghese ove si è ritrovata per inconsapevole diritto ed ha di conseguenza sempre agito come un automa. Dov’anche il farsi l’amante, preferibilmente non rompiscatole, costituisce una sorta di rispetto dell’etichetta. Irene Wagner, la protagonista che, con spessa veletta nascondente, maschera l’identità ed affronta il mondo esterno uscita dall’antro dell’amante, dovendo incrociarsi il passo di lei con qualche portiera, magari qualcuno ch’ella conosce e potrebbe salutarla nonché porsi concatenate domande relative, è perfetta come figura, quivi frigidissima più di tant’altre, stampo di stampo di eroine in stile sachertorte alla Schnitzler, il quale, chissà mai perché, "fa" assai più Vienna dello Zweig. Ma sul punto controverso, quello delle dissomiglianze (nonché affinità), si tornerà. Restiamo al proposito iniziale, quello un po’ sadico di cambiare titolo al libro. Al posto di "Angst", paura (ma anche ansia, angoscia e dintorni), resa speditissima nella più che sciolta traduzione dell’esperta Ada Vigliani, fatta con i pennarelli acrilici (ma dove sono mai finiti i pastelli woolfiani di una Celenza?, non s’addicono alla viennesità?) si potrebbe sostituire il titolo che Zweig adoprò per un altro suo libro: "Brennendes Geheimnis", Bruciante segreto.


Pianista spiantato

Brucia, di certo, il peso che Irene deve portarsi dietro, da quando ha incontrato una ricattatrice, sotto casa dell’amante, un pianista che si sta facendo strada, "pur se in ambito ancora circoscritto", dunque disponendo – e questo certo non è un bene – di "finanze sregolate, di continuo oscillanti fra dissipazioni e ristrettezze", tutte cose che "irritavano in lei la sensibilità borghese". Poca cosa, tale irritazione, di fronte alla popolana oscena dall’alito fetido che le si para un bel dì quando Irene sta lasciando la casa di lui, nervosa, mentre "respingeva sbrigativa gli ultimi fuochi della sua passione". Popolana orrenda e dall’umile veste di lana che comincia a chiederle sempre di più, sempre più esosamente, fino a sfilarle – essendo penetrata in casa di lei – anche un anello la cui assenza certo il marito nota immediatamente. Ma siamo a questo punto quasi alle ultime battute, all’escalation dei ricatti, cui la povera distrutta Irene, sempre costretta a mentire, sempre obbligata a mostrare il volto lieto e sereno davanti a coniuge e bimbi inappuntabili allevati a "signorine", non trova di meglio che replicare: "L’ho mandato a pulire". Poco altro le rimane in testa, ormai: decisioni più drastiche sembrano invaderla, fino al finale a precipizio, "del quale, per una volta – come recita la quarta di copertina del volume – non sarà inopportuno dire che toglie il respiro". Dunque "Bruciante segreto", anzi no, scusate: "Paura" vera e propria, il che forse è anche peggio. In fondo, poi, il "Bruciante segreto" originale, quello del ‘14, combinava l’amorazzo in stile villeggiatura fin-dé-siecle con i turbamenti di un bambino, Edgar, che viene dato per fuggitivo ma poi ritrova la strada per casa, accolto in fine con letizia.


"Con misurato trionfo fu condotto nella stanza, ma come gli risultò strano non far caso a tutte le dure parole di rimprovero che gli venivano rivolte: nei loro occhi leggeva infatti la gioia e l’amore".


E poi il caldo letto, e il padre brontolone (cioè il coniuge tradito) ma bonario, e la madre del bimbo che supplica il figlio di non rivelare il suo peccaminoso flirt al padre. L’importante, per Zweig, è il nido d’amore protettivo, le bianche lenzuola, la casa arredata come classe comanda.


Un po’ di felicità

Tirata una linea di parallelismo, siamo anche alla fine felice della vicenda di Irene Wagner, la moglie del penalista ancora bello ma dal collo taurino e minaccioso, la quale – ed è il massimo che chiede – riesce a non abbandonare l’agio nel quale nuota come pesce in acquario. Eccola, l’Irene della "Paura", superati ostacoli e mali propositi ultimi (per una vicenda della quale ha mezza colpa), distesa sul finale


"con gli occhi chiusi, a godere in modo più profondo tutto quanto costituiva la sua vita e adesso anche la sua felicità. Dentro si sé provava un leggero dolore, ma era una sofferenza piena di promesse, ardente e dolce al tempo stesso, come le ferite che bruciano prima di cicatrizzarsi per sempre".


Il denaro e l’agio ritrovato (che nell’Edgar del "Bruciante Segreto" si traducono "solo" nelle gioie degli affetti e del perdono – di un bimbo pur si tratta) chiudono in un sospetto buonismo le trame di Zweig, quando lo stesso non si diverta, come in altre novelle, a mescolare l’amour fou con un esotismo che pur lo attrae (e anche assai di moda in quel periodo), risolto in una certa chiave espressionista (come nell’"Amok" del 1922). Ma in "Angst", risalente come prima stesura al 1913, a dominare è certo la silhouette di Irene, moglie e amante. Dei cui tratti nulla si sa. Oltre al fatto che in società appare bella o tale si sente:


"Perché ora, mettendo piede nella sala, sentiva dagli sguardi altrui che era bella, e il provare di nuovo tale sensazione dopo lunga astinenza accrebbe ancora più la sua bellezza".


Finalmente una donna alla Zweig-Schnitzler, una donna che però, fuori dal box del salotto di casa sua, è magari una sorta di "Cosa di carne" alla Rosso di San Secondo anche se aggiornata al jet-set viennese primo Novecento. Ecco Irene Wagner che, se depuaperata di quel nulla che per lei è tutto, si trascina "nella stanza vicina con passi da automa e la mente vuota". Vuole forse velare, Zweig, una denuncia d’una certa condizione femminile subordinata alla sovrastruttura imperante (cioè borghese) con questa sua creaturina dal peso piuma? Del resto "tutto nella vita le era infatti giunto in dono, e lei non aveva nemmeno cooperato a forgiare il proprio destino". Ma sì, è cosa di carne, paga dell’orto suo, oltretutto "d’animo un po’ freddo", che tiene all’amante pianista "come un terzo figlio o un’automobile": e qui siamo già alle automobili, permanendo ovviamente le carrozze, immancabile elemento multifunzionale dell’arredo urbano narratologico d’epoca (adatte per fughe, diorami notturni e per ammazzare la gente – come non ricordare il coniuge Curie ucciso da una vettura a cavalli in pieno giorno?). Chi si dimentica, del resto, della famosa vettura de "I morti tacciono" (1897) di Schintzler, padrone assoluto - alla pari di un Freud col quale ebbe qualche breve arzigogolato scambio epistolare di tono "scientifico" – dell’antropologia viennese in disfacimento, che il nostro osserva con occhio implacabile ove la consolazione finale è assente? Come scordare la carrozza che di sera si capovolge (anzi, si scontra "contro la cunetta") sbalzando fuori, nell’impazzimento centrifugo del triangolo proibito, Emma e Franz, quest’ultimo morto sul colpo, mentre lei – chissà se la disperazione di Emma è maggiore di quella di Irene Wagner – arranca a casa certo ricolma di "Angst" o, meglio ancora, di un "Bruciante segreto". Costretta, Emma, alla menzogna assoluta (come Irene) di fronte al marito, di fronte allo shock di una morte avvenuta solo pochi minuti prima. Ma se lo specchio rivela ad Emma un volto, il suo, "che sorride, crudele e con i tratti stravolti" (forse una quasi "Giuditta o Salomè" klimtiana, priva però d’oro bizantino e con un figlio assonnato da mettere a letto – i sempiterni bimbi che leggono e mangiano la minestra) ecco che un fondo, uno sgorgo di psyché (non affatto fuori luogo nello spazio e nel tempo d’allora, anzi, ansiosa d’esplodere) le fa confessare la verità che indomata risale. In fondo i morti tacciono. Il suo Franz, l’amante morto ancora caldo, non parlerà. Sarà la cosa di carne Emma a tradirsi non cosciente. Arthur il medico ipnotista scrittore, non può che osservare con indifferenza di ghiaccio la decadenza di lei. Stefan, il buono, recupera Irene, adultera anch’ella e sfortunata ma ingannata (il lettore saprà), confinata nel letto della dolce espiazione, inquadrata al mattino, mentre i figli cinguettano "come i passeri alle primi luci dell’alba" (doppio domestico, i figliolini, del chiaro riso di bimba della insuperata "Traumnovelle" per sempre schnitzleriana). E sarà un susseguirsi di signorine e domestiche e marito che si reca in tribunale come d’abitudine. Zweig, in vena di perdoni, si sforza di ricomporre quel caos ove pur avverti che restaurare significa incollare d’obbligo i frammenti. Irene Wagner, col denaro che la ricattatrice le estorce, può "comprarsi qualche giorno di pace, una parvenza di felicità". "Mi aggrappo a ogni ultimo brandello di libertà di cui possiamo ancora godere, pronuncio ogni mattino una preghiera di ringraziamento, perché sono libero, perché sono nel Regno Unito". Così Zweig-Irene, al culmine di quell’"Angst" che cercava di esorcizzare, scriveva da Londra al suo amico Joseph Roth. La fiction s’era già incarnata nel rogo nazista dei suoi libri del 1933.

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