mercoledì 6 giugno 2012

James, amare Londra nonostante tutto

Certo, di terremotatore vero e proprio non saremmo forse autorizzati a parlare, quando si tratti di Henry James, nome di tale importanza al quale ci si accosta in maniera reverenziale, al contempo essendo difficile resistere ad un seduttore letterario di tale immediatezza che simboleggia più di tanti altri la crisi della "victorian novel", non essendo nemmeno inglese, o magari inglese per sbaglio, quasi come un malato sulla soglia estrema che si converta alla religione all’ultimo istante utile. Il suo prendere la cittadinanza inglese (lui, l’americano straniero) il 26 luglio del 1915 è solo l’anticipo di una morte che non tarderà ad arrivare, il 26 febbraio 1916. Fu inglese a tutti gli effetti per breve periodo; o magari lo fu per tutta l’esistenza, o in gran parte di essa, in modo virtuale. Il recente volume "Ore inglesi" (Editori Internazionali Riuniti, pp. 319, euro 9,90) sta lì a testimoniarlo con la forza del capolavoro autentico. Tradotti fluidamente da Roberta Arrigoni, ecco a disposizione vari "saggi" (come un risvolto di copertina li definisce - ma è solo una delle tante possibilità) che vengono qui proposti per la prima volta in lingua italiana, perlomeno assieme. L’effetto, vi garantiamo, è sorprendente.


Impressioni

"Gli scritti compilati in questa raccolta – è lo stesso James a presentarli in una nota del 1905 – pubblicati inizialmente in diversi periodici, sono stati già ristampati". "Ogni saggio reca la sua data, e apparirà evidente che le impressioni e le osservazioni di cui essi in buona parte si compongono abbiano visto la luce in uno stadio iniziale del rapporto che li lega al loro argomento generale. Contengono un buon numero di suggestioni, giudizi ed emozioni, a volte legittimi, a volte fallaci". Non pare forse di udire reminiscenze di qualche saggio filosofico? Magari sulla "percezione", termine fondamentale nell’approccio sensista che domina nel dibattito letterario, soprattutto inglese, ben oltre il Settecento. La stessa poesia romantica, all’epoca della sua "fondazione", si può dire che si basi proprio su quelle "emotions recollected in tranquillity", se magari vogliamo rifarci al patriarca Wordsworth. E certo in quella sorta di "cross-over" vivente che fu James, in qualche modo c’è la reviviscenza dell’età dei Lumi, dove però l’illuminazione scenica è mutata. Viva, moderna, concedendosi a bagliori dichiaratamente pittorici, volentieri notturni. Londra è qui inesorabilmente, inevitabilmente "caput mundi", alla Woolf, che del resto non fece mistero della sua venerazione per James, celebrando la capitale, più che in altri luoghi, soprattutto in quel suo capolavoro sinistramente (ed erroneamente) considerato "minore" (o addirittura non considerato) che è "The Years".


Una di Hyde Park Gate

Certo che Virginia, una di Hyde Park Gate, non poteva certo percepire Londra (e il resto dell’Inghilterra) sulla scorta del nostro pellegrin fuggiasco, febbrilmente in viaggio, quasi con una pistola alla tempia, James, nella inesauribile opera di ricognizione e testimonianza. Siamo di fronte a "saggi", articoli, con queste "Ore inglesi", ma si adatta l’oggetto d’indagine a ciò che James pensava del romanzo (che, come si avanzava sopra, contribuì non poco a terremotare, a fare a fette, fino all’involuzione massimamente sperimentale, per citare un titolo, di "The Sacred Fount"): considerandolo - ne "L’arte del romanzo" – al pari di "storia". Insomma, "rappresentare e illustrare il passato, le azioni degli uomini, è compito sia dello storico sia del romanziere; la sola differenza che io possa vedere torna a tutto onore di quest’ultimo (in proporzione naturalmente alla sua riuscita) e consiste nelle maggiori difficoltà che egli incontra per raccogliere le prove, che sono ben lungi dall’essere puramente letterarie". Certo, qui, si parla di romanzo, genere visto come una sorta di faro sul "passato". Ma, quando è il presente che vada documentato, ecco che lo studioso, lo storico-romanziere e l’oggetto di studio vengono a coincidere. Con movimento inavvertibile ma costante, insomma, James fa emergere in primo piano, quale oggetto, non tanto la Londra presa come valore assoluto, ma se stesso, la "sua" Londra, la sua "Inghilterra". Non avremmo troppo dubbio in merito, anche perché usciamo rafforzati nella convinzione dal fatto che James presenti in sostanza, come si diceva sopra, "suggestioni, giudizi ed emozioni" che possono essere sia "legittimi" sia "fallaci". Ma su cosa si dovrebbero fondare legittimità o fallacia? Probabilmente sul dato, rilevato da Franco Cordelli in una sua prefazione al garzantiano "Giro di vite" che "l’arte non è, dunque, estetica allo stato puro". Anzi, l’arte "è per James il punto di convergenza dell’esperienza", seguendo qui Cordelli un saggio di Georges Poulet. Il che ci sembra prospettiva criticamente più stabile dell’ovvia mitizzazione dello scrittore eternamente girovago; elemento, quest’ultimo, certo da non trascurare, ma che andrebbe forse ricollocato in un quadro generale di più realistiche proporzioni (e utile ad una più chiara percezione dell’autore). Poiché è pur vero, ad esempio nello stupendo "Londra" che apre il volume (1888), che lo scrittore si definisce "l’esiliato", "lo straniero deciso ad amare la sua Londra costi quel che costi", che qualche riga sotto "si scopre completamente solo in una biblioteca fumosa". Ma la "missione" romanzesca, chiamiamola così, non gli deve impedire di narrare il vero. A partire dal "sudicio quartiere di Bloomsbury da un lato, e Soho, più sudicia ancora, dall’altro". Senza obliare che il diorama, la lastra della città, per essere il più esatta possibile (vale a dire, esattamente filtrata dall’occhio interiore che percepisce il fluire dell’esperienza), non potrà mancare di recare con sé lo spaccato socio-economico. Un po’ come se sotto Londra ci fosse dell’altro, a seconda dei punti di vista. Tanto che "gli scenari rurali" costituiscono "il vero sostrato della vita nazionale". Ma non basta: poiché, senza tema di cadere in contraddizione, James scrive che Londra è "sgraziata e brutale", è "come un’orca poderosa che divora carne umana". E ancora, in uno dei culmini orchestrali del pezzo: "Non ho la minima idea di quale potrà essere l’evoluzione futura di questo prodigioso mostro proteiforme; se i poveri prenderanno il posto dei ricchi, o se i ricchi spoglieranno i poveri di ogni cosa, o se gli uni e gli altri seguiteranno a convivere sulla stessa base instabile della loro relazione attuale". Restando in tutto questo una sorta di rumore di sottofondo, visto che "l’impressione di sofferenza è parte integrante della vibrazione generale". Anche se il tutto non è affatto male, rientrando nel dominio dell’esperienza. Dato che proprio la sofferenza, o meglio, l’impressione di questa, "è uno degli elementi che, unito a tutto il resto, produce quel suono che sta sommamente a cuore a colui che si ostina ad amare Londra: il fragore dell’impressionante fucina umana".


Ostinazione

Colui che si ostina ad amare Londra, certo, ma anche l’Inghilterra tutta. Con qualche lieve dubbio su quale oggetto (Londra o Inghilterra) sia maggiormente investito d’amore. Gli piace il Tamigi, benché un po’ squallido, cui magari non nega una luce, diciamo così, alla Monet, ma dichiara di preferirlo, tanto per non smentirsi, "quando si trasfigura e si dissolve nella città". Quello stesso fiume che, in uno scritto del 1877, gli offre inaspettati stati allucinatori, un "brivido immaginativo". Dato che i "pilastri mastodontici dei ponti, in particolare, sembrano a tutti gli effetti le colonne dell’impero". Ovviamente britannico. Occasione di escursioni frequenti. Talvolta sfocianti nel gotico, inteso come genere. A Canterbury scende nella cripta e brancola nella penombra. Gli elementi atmosferici intanto preparano il loro teatro: "Mentre mi trovavo lì, un violento temporale si abbatté sulla cattedrale; forti folate di vento e scrosci di pioggia spazzavano i lati aperti della cripta". Un effettaccio che sarebbe piaciuto anche a Chateaubriand con qualche probabilità. Anche se alla fine tutto viene sussunto in una più ampia unità, vale a dire "l’argomento generale" di cui lo stesso James, come già visto, discetta nella presentazione. Non solo temporali o non solo quella primavera di eterna sospensione ("niente pioggia – e men che meno sole"). Anche intervalli, come si apprende dai "Quadretti inglesi", di "luce e tepore e, in Inghilterra, un paio d’ore soleggiate strappate al maltempo acquistano una loro indipendenza e lasciano una traccia indelebile nella memoria". Quale compito nobile e gravoso, allora, sarà quello affidato alla scrittura. Sospesa in maniera inimitabile, perigliosa sempre, mai però priva di vigore, tanto da non essere certo una leziosa "metascrittura", anche se talvolta può sembrarlo. Del resto, nel regno della contraddizione provata (della scrittura stessa, alla fine), che si riflette nel foglio bianco da riempire, tanto potente è Londra come città, che "è l’unica che riesca a farti sentire in aperta campagna".

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