martedì 29 maggio 2012

Porfirio, scene da basso impero

Mondo pagano e mondo cristiano in drammatico, pericolante equilibrio. Lo sfondo è quanto mai da basso impero. Giunse, un dì, su questa terra, un Cristo del tutto inconcepibile rispetto alla enorme, distesa tradizione platonica, puntellata dalle sue modalità in realtà legate alle varie prospettive interpretative di come la divinità potesse palesarsi nel mondo. O l’uomo ad essa risalire, per quali scale d’anima. Realtà degradata, quella mondana, tanto che il sapiente, o il di lui seguace, spendeva il suo impegno nel percorrere le strada a ritroso nel miraggio di un ricongiungimento. Padri della Chiesa e filosofi della religione antica gli uni contro l’altra armati. Porfirio, allievo prediletto e combattivo di Plotino, non subì il fascino della conversione al nuovo e si impegnò con la parola scritta e l’insegnamento a dimostrare l’inconsistenza e l’"ignoranza" dei cristiani, qualifica del resto d’ordinanza all’interno dell’ambiente neoplatonico. "Nessuna meraviglia che i più ignoranti considerino le statue pezzi di legno e di pietra, proprio come quanti non capiscono la scrittura guardando le steli come pietre, come legno le tavolette e come papiro intessuto i libri". Così il sapiente, ma anche maestro di cerimonie mistiche e riservate, in un frammento iniziale di "Sui simulacri", "Perì agalmátōn", resuscitato in queste settimane in una generosa edizione Adelphi (introduzione e commento di Mino Gabriele, traduzione di Franco Maltomini, pp. 287, euro 17,00). Opera, si diceva, frammentaria, destinata alla scomparsa, alla cenere, se Eusebio di Cesarea non ne avesse citato varie parti nella "Praeparatio evangelica", ovviamente col compito di mostrare gli errori della religione falsa e menzognera. Porfirio di Tiro (233-305 d. C.) qui, nonostante il veleno sparso dalla patristica, temente di perdere la sua battaglia, procede regalmente nella dissertazione, a metà fra la celebrazione rituale e l’ambizione didattica. Non basta, poiché "Perì agalmátōn" va visto come manuale e guida specializzata "tematicamente" nella foresta simbolica. Ma, si badi bene, avverte Porfirio, "parlerò per chi è lecito". E dunque, "voi profani chiudete le porte". Porfirio svelerà. E’ ierofante, cioè anche sacerdote, ma dispensatore di saggezza dal consumato profilo. La sua è lectio magistralis, cerimonia e guida. Alle sue spalle il dispiegamento della sapienza si è già consumato: "Mediante questi simboli, dunque, viene disvelata la forza della terra". Porfirio è conscio della pratica dell’uso simbolico delle imagines, dell’ágalma. Il simbolo, ciò che sta al posto di altro, come precisa Gabriele nell’introduzione, "smesso l’abito ‘di chi fa le veci’ può apparire come ‘cosa’ in sé, autosufficiente, fino a proporsi, specialmente in ambito mistico-religioso, come una teofania, sino a diventare esso stesso oggetto di culto". Dunque, da mero supplente per un invisibile comunque costantemente irraggiungibile, "a soggetto autonomo". Solo la dimensione simbolica, insomma, è in grado di azzardare l’impresa di riprodurre e dare nome "a idee impalpabili, agli dèi e all’aldilà, ai primi princìpi e alle più occulte ragioni delle cose sino all’ineffabile". Il simbolo, il simulacro, vive in questa costitutiva ambiguità che, appunto, lo sostanzia: escluso il suo essere solo come somma delle caratteristiche del materiale di cui è fatto (i polemisti cristiani battevano proprio su questo tasto, all’infinito: dietro la materia, niente) è la migliore introduzione ad altro, all’Altro. E’ la porta, la visio all’umana tensione verso il soprannaturale. Le speculazioni sul divino "narrano e discutono sul modo di esprimerlo in maniera conveniente ai sensi umani". Che, purtroppo, dato l’esilio terrestre, sono i più poveri, i più ciechi per cogliere realtà superiori dalle quali siamo drammaticamente lontani. Neppure un bagliore ci giungerebbe se non fossimo in grado di stimolare una sorta di reviviscenza verso le cose come furono, come "sono". Del resto l’anima, nella sua discesa, cade nell’oblio delle realtà intelligibili, smarrendo qualsiasi purezza originaria. Il simulacro, certo, è approssimazione, via altamente indiretta, eppure è una delle occasioni che ci vengono date per tentare di ripercorrere a ritroso la scala della discesa. Porfirio, conscio della trappola materiale, esorta chi è ammesso al rito della risalita. Al contempo non rinuncia ad un approccio ancora oggi familiare a noi, usando la strada della spiegazione dei nomi divini su base "etimologica". Ma difficilmente è circoscrivibile la ricchezza di questi preziosi frammenti, come dimostra del resto la trapunta fitta del commento di Gabriele, 180 pagine spalancate sull’abisso del mondo classico, che il cristianesimo non riuscirà ad umiliare né addomesticare, e che vedremo rivivere splendidamente nella Firenze ficiniana.

iPad, ovvero la rivincita della scrittura

Non ci si lasci ingannare dall’allegra e spiritosa copertina di "Anima e iPad" (e neanche dal titolo, ad essere sinceri), penultimo libro di Maurizio Ferraris (Guanda, pp. 185, euro 16,50): non è un testo semplicissimo e bonaccione, come i tanti che girano in questi ultimi tempi, consacrati più o meno alle meraviglie e alle ricadute planetarie, ma anche spesso personali, della diffusione delle tecnologie di massa: vedi iPod, iPhone, iPad, la grande triade in cui pare essersi articolata, cristallizzandosi, la rete della comunicazione globale. Anzi, dalla triade sarà bene escludere proprio il primo dio in ordine di tempo, cioè l’iPod, piuttosto segnale cupo derivante dalla tragedia dell’11-09-01, il decennale del quale è caduto in questi giorni e di cui si sono celebrate (dell’iPod, intendiamo) le ritrovate qualità (negative, in sostanza) di incomunicabilità e isolamento. Crolla New York in maniera metonìmica (le Torri sono la pars pro toto): e nella stessa maniera (metonìmica) è crollato e viene sfidato l’Occidente. E Steve Jobs, per tutta risposta, a poche settimane di distanza dall’attentato, ti tira fuori il successore totalmente digitale del walkman, l’iPod, ponendo così fine alla pratica dell’ascolto collettivo. Tutti ben chiusi in noi col nostro bagaglio di canzoni contenute in tasca, muniti di cuffie, a fare esperienza uditiva individuale. Nessuna gioia collettiva, dunque solo un ripiegamento, una ferita che deve rimanere aperta e non essere rimpiazzata da nuove costruzioni ambiziose, poiché la ferita è memoria, come invocava anche l’ultimo Hillman sempre più riguardoso a sacrificare agli dei del luogo. Resta l’iPhone, un po’ telefono un po’ bussola un poco computerino, se non fosse che Steve Jobs, ai primi posti nelle vendite in libreria in pratica dal giorno della sua morte (ci riferiamo alla recente instant-biografia di Isaacson, edita da noi per Mondadori, libro cui giusto mancava la scomparsa dell’eroe), prima della dipartita volle ingrandire il telefono cellulare, ma non troppo, imponendo al consumo collettivo la geniale tavoletta chiamata iPad.


Socrate e Platone

E’ da questo oggetto che parte Ferraris, e lo fa in maniera fintamente spiritosa o scherzosa. L’autore è un filosofo, ordinario di Filosofia teoretica all’Università di Torino, editorialista di prim’ordine e nome di fama internazionale, condensatore, fra le altre cose, di Socrate, Platone e Aristotele in un volumetto recentissimo che si accompagnava con "la Repubblica", presto andata esaurita grazie al supplemento di cui sopra. Risultato brillante di vendite che indica come la fame di sapienza, di filosofia, sia elevata presso il lettore italiano, che sarà in ogni caso chiamato a sfida interpretativa più elevata col volume di Ferraris dedicato all’iPod. E non solo a quella sfida, ma a una più vasta visione concepita con l’ossessione della scrittura (che pare appunto l’ossessione di Ferraris), della traccia, fino al paradosso messo alla dura prova della dimostrazione. "E se l’automa fosse lo specchio dell’anima?", recita il sottotitolo. E ancora ci sfugge l’intreccio dei collegamenti. "L’anima assomiglia a un libro, in cui si accumulano iscrizioni, memorie, immagini. Un libro animato, insomma, un ‘animated book’, un a-book potremmo dire. Ma tanto vale, allora, dire, per il momento, un iPad". Visto che "la tabula è la condizione di possibilità del pensiero" (ove "possibilità" indica tutto e niente). Ma "senza quella tabula non c’è spirito, non c’è pensiero, non c’è mente". Ferraris, dall’alto della sua propria memoria, o delle appendici che da memoria sua propria fungono (i libri, certo, ma magari anche ciò che trova scritto nel suo iPad, grande metafora al momento tecnologicamente avanzata per ciò che oggi è possibile - altri sostituti giungeranno, si suppone) è in grado di citare molti filosofi.


Kant

Non viene ultimo Kant, "forse l’autore che si è maggiormente impegnato nella ricerca di una immaginazione totalmente produttiva, e questo per ragioni di coerenza concettuale del suo sistema". E dunque un po’ di ripasso delle cose liceali sarà pur d’obbligo, altrimenti le connessioni del discorso dimostrativo di Ferraris svaniscono e rendono poco chiaro l’impianto del saggio. Insomma, seguendo Ferraris, nella filsofia kantiana - volendo proprio farla corta - "bisogna che gli schemi vengano generati non da una immaginazione riproduttiva, bensì da una immaginazione produttiva". L’immaginazione produttiva, per così dire, è una sorta di autentica forza creatrice, che agisce a partire non certo dal già assimilato, dal già saputo. Ora, essendo Ferraris ossessionato dalla scrittura, dal documento, in sostanza dalla riproduzione (l’iPad è una centrale di documenti, una centrale riproduttiva estesa globalmente), nota che anche Kant, volendo affrontare, per così dire, il tema di una scaturigine pura, che non si limiti alla replica del già scritto, si comporta in modo evasivo, dato che, "quando si parla della immaginazione produttiva, ossia della immaginazione pura, che non avrebbe niente a che fare con la memoria, si entra nel mistero assoluto, e tutto quello che si riesce a dire, anche quando a parlare è un grandissimo filosofo, è che questa immaginazione produttiva è diversa da quella riprdoduttiva". E parliamo, per l’appunto, di Kant, che non esce dall’imbarazzo (suo, nostro?), ma si limita a dire cosa "non" sia l’immaginazione pura, produttiva.


Acqua

In questo snodo, collocato alle pagine 49 - 50 del suo stimolante saggio, Ferraris porta molta acqua al mulino del suo impianto. Vuole dirci, insomma, che "non si riesce mai a identificare uno spirito radicalmente separato dalla lettera, dalla ritenzione, dalla ripetizione". Per citare Roman Jakobson, quello dei "Saggi" Feltrinelli, "il parlante, come regola generale, è solo un utente e non un creatore di parole". Se poi andiamo anche a guardare, sempre di Ferraris, il suo libretto su Socrate, Platone e Aristotele, quello per "Repubblica" uscito sabato scorso, avremo una ulteriore riprova di ciò che al nostro professore di filosofia interessa dimostrare. Un esempio: "Quando definisce il funzionamento della mente dell’uomo, Platone ricorre alla metafora del libro, quindi pensa la mente sulla base del modello della scrittura". E, ancora, quando si dice – e qui la connessione è esplicita - che "abbiamo un Platone filosofo dell’iPad, del computer, del telefonino e di internet". E tutto questo esponendo l’ideologia platonica, non certo favorevole alla scrittura che in realtà "rovina la memoria". Insomma, viste le basi, non stupisce certo che Ferraris abbia dato alle stampe "Anima e iPad". L’ultima invenzione di massa di cui l’umanità sembrerebbe servirsi - in totale incoscienza del passato, si potrebbe aggiungere - è l’iPad, in sostanza strumento che si basa sulla "rielaborazione delle iscrizioni che ci portiamo dentro" (dal volume edito da Guanda, come il resto delle citazioni che seguiranno). Detto in altri termini (il luogo è lo stesso), "pensare, avere un’anima, possedere uno spirito - tutte le figure della nostra interna animazione - significano essenzialmente, ricordare, ossia ricorrere alle iscrizioni che si depongono sulla tabula che abbiamo in testa". O sull’iPad che abbiamo davanti. L’iPad è l’ultima delle tabulae nella storia dell’umanità. Il suo successo, la sua diffusione, corrisponderebbero certamente ad un bisogno, ad un atteggiamento secolare, che si perde agli inizi della storia.


Chiarezza

Ma è con Kant specialmente che la posizione di Ferraris diventa più chiara. O, meglio, è partendo dall’elusività di Kant che Ferraris colloca all’origine di tutto la scrittura, anzi, la "registrazione" della scrittura. L’immaginazione produttiva è inspiegabile, in sostanza. E’ "arte nascosta" (così nella "Ragion pura"), difficile da esibire "patentemente" (sempre dalla "Ragion pura"). Dalla piega mai spiegata (ma in certo modo scossa, spiegazzata) Ferraris ricava una legge parimenti "patentemente" difficile da illustrare nella sua luminosità evidente. Crediamogli piuttosto quando sostiene la "lettera" quale "condizione di possibilità dello spirito". L’iPad è solo l’ultima delle materializzazioni scrittorie; con l’iPad la scrittura entra nell’era digitale. La scrittura, si badi bene, poiché di questo si parla in un regno contemporaneo che sembrava votato al visivo puro, all’immagine. Saremmo, dunque, tutti scribi, disperatamente scribi, ineluttabilmente tali, fino alla costrizione, aleggiando l’ipotesi che gli scribi che siamo possano finanche essere automi. "La spontaneità e la creatività che avvertiamo in noi, il fatto di possedere dei contenuti mentali, delle idee, e di riferirci a qualcosa nel mondo, non sono prestazioni che confliggano con la possibilità che l’origine di tutto questo vada ricercata in registrazioni e iscrizioni". E ancora, tanto per citare una frase ad effetto: "Siamo automi e non lo sappiamo – e del resto come potremmo saperlo, dal momento che siamo automi?". Decade il problema fittizio di una qualche anima albergante chissà dove (dualismi e dintorni); ma se ne va anche – poiché ritorna scrittura – l’idea di un dio. L’ultimo Freud fa derivare il dio di Mosé dall’egizio Aton, che diviene Adonai, che diviene Bibbia, libro sacro e trasportabile e, con salto comprensibile, anche iPad, mummia quintessenziale e "meno impegnativa" delle mummie vere, registrazione, traccia. E’ ciò che resta ed è ciò che era (nemmeno un’intelligenza superiore come quella di Kant sa dirne di più).

sabato 26 maggio 2012

Durs Grünbein, il muro è un ricordo. O forse un mito

Di fronte alla mole di "Ricostruzioni. Nuovi poeti di Berlino", l’importante antologia sui "novissimi" (anche di anni cinquanta all’anagrafe) che si sono raccolti nel calderone berlinese negli ultimi anni, ci è venuto in mente Durs Grünbein, che non può far parte della raccolta perché lo spazio che si è creato nel tempo è tutto speciale. E’ colui che si è conquistato il posto di cantore delle Germanie al trapasso, coltivando l’ambizione, nota Italo Testa sull’ultimo numero di "alfabeta", di diventare in pratica una sorta di cantore rappresentativo dello Stato (dei due Stati) diviso e di quello riunificato. Conosciamo Grünbein verseggiare in italiano grazie all’intermediazione di Anna Maria Carpi, responsabile, per i tipi di Einaudi, di tre raccolte del poeta nato nella Germani Est, a Dresda, nel 1962. "A metà partita" è una silloge del 1999, comprendente una selezione delle prime cose, mentre "Della neve ovvero Cartesio in Germania" del 2003 - 2005 in traduzione – è una sorta di grande poema in alessandrini dedicato al noto filosofo, la cui figura è correlata al "bianco", come si vedrà brevemente più avanti, nelle sue declinazioni e nei suoi significati. La novità "italiana" per Grünbein e per noi, in questi ultimi mesi, è rappresentata dalle "Strofe per dopodomani e altre poesie" (pp. 207, euro 12,50), che fanno il punto sullo stato dei lavori recenti. Pare che la critica tedesca, ci informa il succitato Testa, abbia iniziato a manifestare qualche dissenso o, meglio, "insofferenza", per la "compiaciuta erudizione, il pathos della distanza e il décor neo-antico dei nuovi versi". Il che a Testa, tutto sommato non dispiacerebbe, visto che permette di rilevare "l’audacia e di misurare il prezzo della calcolata ‘inattualità’ nell’evoluzione più recente della poetica dell’autore". Grünbein, insomma – ma non certo in tutte le liriche di "Strofe per dopodomani", ci pare – mirerebbe ad una sorta di spazio "aere perennius" che, preso nelle sue estreme conseguenze, potrebbe anche portarlo ad un isolamento dorato (o bronzeo). In effetti, quello della frizione fra individualità e dato realistico, sociale, è un punto che l’autore avverte come centrale nel suo lavoro. In una intervista con lo stesso Testa risalente al 2000, Grünbein pare assai attento a questo dualismo che poi potrebbe non essere in effetti tale: "Credo che naturalmente la poesia sia ancora il più intimo dialogo dell’uomo con se stesso. Però qui non è del tutto chiaro chi sia questo ‘sé’. Nel mio caso può trattarsi di un dialogo con se stessi sull’intossicazione: il problema è sempre scoprire sino a che punto si è contaminati dal tempo, dall’ambiente, soprattutto dalle idee del tempo. In questa misura è corretta la tesi per cui il soggetto non è mai puro. E dovremmo fermarci qui, perché non ci è dato fare molti passi avanti. Ma questo è un punto molto importante. Non vi è affatto quella contrapposizione ideale per cui da un lato starebbero la società, la modernità, lo spirito del tempo, e dall’altro starei io, in quanto singolo, con la mia verità. Questa non è una verità ma solo uno strumento". Insomma, è da postularsi un particolare processo, diremo osmotico, per cui, comunque, il poeta sarebbe portatore di una visione in cui ciò che è fuori, nonostante ogni tentativo di tenere le cose del mondo lontane, finirebbe col manifestarsi inevitabilmente? Grünbein è anche l’autore di un monumentale poema quasi teatralizzato, "Della neve", dedicato a Cartesio. "A me ci vuole l’ombra che contorna – dice il pensatore al servo-aiutante Gillot – Una marmotta sono/che si rintana, a luce di candela./Mi spaventa la neve, questo lenzuolo funebre,/come bocca che sbava, o come occhi rovesci./Il nuvolo mi strappa dalla tana,/non il ghiacciaio sfavillante". Dunque, "Prendi nota, Gillot: nulla disturba il meditare tanto/quanto un chiarore che va dritto agli occhi". "L’inverno – commenta la Carpi in una nota alla traduzione – è di certo anche una metafora della condizione moderna, che s’inaugura quasi quattro secoli fa con la separazione cartesiana fra res cogitans e res extensa, l’io pensante e le cose che si offrono ai sensi. Muovendo dalla ‘tabula rasa’ dell’inverno, i sentieri sublimi della conoscenza razionale portano al progressivo raffreddarsi dei rapporti dell’uomo con se stesso e con i suoi simili". E non è dato ancora comprendere quanto "Della neve" agisca come metafora del modo di porsi rispetto al reale, ad una cosa esterne che preme, oltretutto con insistenza. Da una parte, nella scena iniziale del poema, domina l’esultanza "pittorica" di Gillot che tenta di svegliare il padrone: "Fin dove arriva l’occhio è bianca la pianura,/è tutta un cono bianco. Sono gli alberi/ che il grande arrangiatore con invernale mano ha ingentilito". Lo scontro, insomma, è fra "der große Arrangeur" e qualche forma di io autentica, priva di scorie, l’io che Cartesio insegue. "Non mi serve l’esterno – replica – Ho da guardarmi dentro". E’ ricerca vana, utopia? Del resto è proprio il poeta a precisare che "è corretta la tesi per cui il soggetto non è mai puro". Neve o rane schiacciate, finite sotto le ruote: l’evento naturale o la mini-gigantesca catastrofe non sono mai eliminabili. "Come crocifissa giaceva questa rana/schiacciata sull’asfalto ardente/della provinciale". E ancora: "l’anfibio delle più antiche ere della terra/finito (…)". Per cui: "Non c’è risurrezione altro che in larve/di mosche – già mature domani". Cui fa seguito la domanda finale: "Per dove mai può fuoriuscire il sogno?". Questo si chiedeva un Grünbein più giovane, cui "der große Arrangeur" aveva riservato, al posto della neve, comunque fastidiosa, un piccolo teatrino dell’orrore e della corruttela che si agita nel mondo sublunare, per dirla neoplatonicamente. Solo per tracce sparse si può congetturare che la ricerca del "sogno" porti – vista la sgradevolezza dell’esterno – all’introiezione. Che è un falso rifugio, tuttavia. Nell’intervista di cui sopra, il poeta è abbastanza chiaro in merito. Alla domanda se la sua predilezione vada verso una lirica "monologica", replica così: "Da molti anni osservo in me stesso un movimento verso una dimensione dialogica. Ma credo che la poesia, quando si inizia a scrivere, cominci probabilmente da un monologo. Già l’espressione ‘poesie monologiche’ è l’indizio che si tratta di una posizione provvisoria, che la condizione propria di tale stadio debba essere superata. Già da diversi anni molte mie poesie, più o meno apertamente, si rivolgono a un partner dialogico, talvolta direttamente a conoscenti, talvolta ad autori morti, talvolta, e questo è il lato più segreto, a sconosciuti nel futuro. Così assume spessore anche l’aspetto drammatico all’interno della poesia, perché solo per questa via può crescere la tensione. Credo che alla poesia lirica sia inerente la presenza di un interlocutore: anche nel più amaro colloquio con se stessi vi è sempre un interlocutore, l’altro di se stessi, o il Dio perduto, come sempre. Vi è sempre qualcuno con cui si dialoga e mai un monologo puro. Vi sono, naturalmente, possibilità di aprire la poesia, una sensibilità per la moltiplicazione della propria voce che è in atto già da tempo nella mia opera. Poesie di ruolo, dove parlo con la voce di qualcuno totalmente diverso, per esempio un antico romano". Non dovrebbero far parte della dissociazione "di ruolo", nelle ultime "Strofe per dopodomani", episodi come "Congedo dalla Quinta era", ove "le aiuole del parco somigliavano ai congressi di partito", sebbene Testa, nella citata recensione per "alfabeta", parli di "mitologia" anche per quanto concerne l’era Ddr. Più evidente è la volontà di una lirica "anticata" in versi di tal fatta: "Si staccò la corazza dal cavaliere esausto/del suo star nella danza macabra affrescata". Sebbene, nel medesimo luogo, l’affastellarsi delle visioni segni l’animazione rispetto alla visione data per sempre: "Nel sonno quante posizioni prende/ognuno? Feto, crocifisso, Laocoonte, o Shiva?". Il che è un po’ come dire che la res cogitans, per quanto reclami d’esser lasciata indisturbata, è assai precisa anche nella cronaca della banalità: "La raccolta rifiuti è puntuale".

Evgeny Morozov, blogger bielorusso inquieto e critico

La dipartita di Steve Jobs fu seguita come evento collettivo, come via crucis dall’impatto globale. Difficile sapere con precisione quanto uno dei re Mida del digitale stesse pianificando tutto. Altrettanto c’è da dubitare sul fatto che egli lasciasse il minimo dettaglio al caso: non lo fece in vita, probabilmente non lo stava facendo in quei lunghi mesi durante i quali la condanna medica stava trasformandosi in viaggio senza ritorno. Lo conoscemmo in carne, ed ora, smagrito e galleggiante nel jeans e nel girocollo d’ordinanza, si presentava lo stesso sul palco. Nessuno poteva criticare, era una questione di privacy. Se qualcuno avanzava l’idea che un uomo-azienda come lui si sarebbe portato appresso, con la sua sparizione, anche l’intera ditta, la replica era secca, stizzita, urtata. Come a dire (e ciò era il massimo): ma cosa c’entra la Apple con me? A distanza di mesi si può dire che Jobs, anche in quei tempi fatali, abbia visto giusto: Apple è nei cervelli di tutti, vecchi e giovani. L’idea di un iPad ha sostituito quelli che un tempo (non troppo tempo fa) erano i pensieri intorno al computer. Jobs, il trapassato, non solo non ha condotto Apple nel luogo oscuro e senza ritorno, anzi. Quale esperto agricoltore ha ben seminato, magari pianificando le cose future ancora per anni. Certo, dopo l’iPad, cosa mai ci sarà? Ma la domanda ancora non si è infilata nelle menti del popolo, e dunque la domanda è come se non esistesse. Per ora il tempo va avanti con l’eterno presente della tavoletta. Il dopo non c’è. Sarà nel momento in cui sarà. E tanto basti. C’è ovviamente chi non si farebbe mai abbindolare da paesaggi simili: sono i tanti internauti dotati di coscienza e senso della storia, seppur breve, della rete. Sono i blogger always on line, eternamente connessi, eternamente mobilitati (l’espressione deriva da un colto saggio di Maurizio Ferraris sull’iPad), magari anche non volendolo (pur di costrizione inavvertita si tratta), che amano meditare sulla magmatica materia e sui suoi protagonisti altolocati. Steve Jobs sedeva nel più alto degli scranni, senza dubbio. Ma Evgeny Morozov, blogger bielorusso inquieto e critico, che ha fatto fortuna in America (scrive su "Wall Strett Journal", "Financial Times", "Washington Post" e altro) appartiene a quel partito che vuole tirar giù delle nubi il sant’uomo, spezzarne il mito, farlo a fette, giungere alla verità. Morozov è noto per il libro "The Net Delusion: The Dark Side of Internet Freedom", divenuto in italiano, per i tipi di Codice, "L’ingenuità della rete". Titolo, in traduzione, già su una sponda interpretativa del contenuto. Ove ingenuità sarebbe consustanziale col lato oscuro, col "dark side"; anzi, figurerebbe come copertura e conseguenza, al contempo, del lavorìo sotterraneo che, al riparo dagli sguardi degli ingenui, i veri padroni del web sono liberi di mettere in atto. E alla fine la libertà della rete sarebbe solo un parziale spiraglio rispetto alle vere possibilità. E’ Morozov a sostenere, ad esempio parlando dell’Iran, che soltanto una frazione delle comunicazioni nei giorni (che paiono così lontani!) delle poteste proveniva dall’interno del paese. La maggior parte avrebbe avuto origine all'estero, attraverso la rapida diffusione dei link che è tipica del medium digitale. Certo, anche così si alimenta l’attenzione del mondo, ma è cosa dubbia che i social network siano stati il motore più influente della protesta. O, perlomeno, l’unico, il più autentico e genuino. Si potrebbe replicare a una simile osservazione, non certo campata in aria, che comunque così la rete funziona: cioè come un gigantesco e istantaneo passa parola. Ove se una zona dell’impero digitale è debole ed oppressa, le zone più in salute possono compensare. Lo scettico Morozov vi risponderà che le rivolte sono solo una parte dell’attività della rete, la più eclatante: la normale amministrazione è ancora peggiore. Si pensi agli hacker, i quali non possono essere hacker tutta la vita. I più bravi, già lo si sa, vengono tranquillamente inglobati, fagocitati dalle multinazionali e dai governi, che impiegano tempo e fondi, molti più di quanti si pensi, alla distrazione ludica di massa dei naviganti. Così contenti di navigare, così ignari del lato oscuro. Critiche generali, queste: Morozov ultimamente pare avere preso sott’occhio un oggetto d’analisi più circoscritto. E’ appunto lo Steve Jobs con cui abbiamo aperto queste note. Il suo nuovo pamphlet s’intitola "Contro Steve Jobs". In pratica sembra derivare un lungo articolo pubblicato su "The New Republic", dove si parla di un libro di Walter Isaacson uscito subito dopo la morte di Jobs. Semplicemente "Steve Jobs". E’ il testo che tutti comprarono (in Italia uscito per Mondadori), anche coloro che in genere non sono troppo attratti dalla lettura. Ma era pur morto il grande Steve….


Dettagli

Issacson, biografo ufficiale, super-autorizzato, riempie il volume di dettagli di ogni genere, che sempre fanno piacere all’ammiratore. Di conseguenze critiche, certo, non se ne trovano poi tante in quelle seicento pagine. Ma Morozov tiene gli occhi ben aperti, e poco si lascia sfuggire. Intervistato brillantemente da Benedetto Vecchi sul "Manifesto", ricorda che Jobs fu abile "nel chiedere ai potenziali clienti di acquistare una macchina che serviva a ben poco, ma che in futuro sarebbe diventata indispensabile. La sua abilità è stata di accreditarsi come un critico verso il potere oppressivo delle big company di quel periodo". L’analisi è realistica e corretta. E’ lo stesso Isaacson a descrivere con cura i preparativi per il lancio del Macintosh. "Una giovane donna dall’aspetto ribelle sfuggiva a una polizia del pensiero orwelliana e lanciava una mazza contro uno schermo sul quale era proiettato un ipnotico discorso del Grande Fratello. L’idea catturava lo Zeitgeist della rivoluzione del personal computer". E via dicendo. Regista dello spot fu Ridely Scott, il mago di Blade Runner. Scegliendo Scott, prosegue Issacson, "Jobs poteva associare se stesso e la Apple alla filosofia cyberpunk del momento. Con quella pubblicità la Apple poteva identificarsi con i ribelli e gli hacker che pensavano in modo diverso e Jobs poteva reclamare il proprio diritto a essere identificato come uno di loro". Da dove, in ultima analisi, nascerebbe la critica asperrima, da dove l’accusa? Magari nel promettere più di ciò che il contenuto vero della macchina recava con sé. "Il popolo – ha precisato Morozov nell’intervista – ha quindi comprato quella macchina più per una ragione ideologica che per la sua effettiva utilità". Si potrebbe del resto replicare che l’abilità nel navigare fra promessa e reale valore tecnologico, in Jobs è stata assolutamente unica, e continua oggi nei punti vendita, totalmente dedicati al marchio. Ma anche oggi si acquista, col prodotto, pure una sorta di "tecnologia morale"? In effetti, ormai è difficile che la coda del mito abbia quella persistenza che pareva detenere solo qualche anno fa. iPad, iPhone e quant’altro (compresi i computer veri e propri, s’intende) sono divenuti totalmente oggetti di massa. Conservano lo status di oggetti del desiderio, ma l’aura sacrale, esteticamente linda, è andata scemando. La parrocchia Apple ha ancora i suoi sacerdoti, ben inteso, compresi i commessi dall’aria convintissima e superba, ma si ha l’impressione, un po’ paradossale, che, divenendo pura tecnologia massificata, anche quella di Apple abbia cominciato a declinare: non certo qualitativamente, s’intende (non siamo più ai tempi delle barricate e del pionierismo e del convincimento "ideologico"), visto che tali prodotti funzionano in modo più che egregio e stabile, senza sorprese o rallentamenti macroscopici; quanto sul piano di un’aura che sembra opacizzarsi, magari dissolversi. Morozov ribadisce che ancora alla Apple usano il solito mantra "think different". Ancora un po’ e saranno gli unici a ripeterlo.

lunedì 21 maggio 2012

Gozzi: non fu solo il nemico numero uno di Goldoni. Una recente pubblicazione composta da inediti. E che inediti!

Il mitico Settecento teatrale veneziano, il regno dello splendore e dell’intrallazzo, del professionista scrittore di commedie che si butta senza paracadute alcuno sul mercato, del nobiluomo letterato e parimenti scaltro, peraltro immerso nel fluire delle cose, che guarda con occhio malevolo chi troppo sia compromesso nella gara dello share dell’epoca, del gradimento. Occhio malevolo, e parimenti compromesso, astioso finanche, ma penna sciolta, ed estrema confidenza con le compagnie teatrali, vere famiglie ove le parti si spostavano di padre in figlio, ove la giovane, ormai cresciuta e donna fatta, non faceva più la parte della fanciulla e viene promossa – e non lo vuole – al rango della madre e non più della figlia. Ma l’età passa per tutti, senza pietà, e l’organismo biologico della compagnia vivente è sottoposto al naturale sviluppo del mondo. E del mercato. E del teatro. Il volume che reca come autore Carlo Gozzi, dal titolo "Commedie in commedia" (Marsilio, pp. 489, euro 24,00), uscito alla fine del 2011, sta avendo una più che meritata diffusione negli ultimi mesi, con relative presentazioni, la più rilevante delle quali a Ca’ Foscari in aprile, con la "goldoniana" Marzia Pieri ad introdurre un volume sul nemico numero uno dell’avvocato Carlo. Parliamo con evidenza di una pubblicazione di livello eccellente che contiene vari inediti, testi fino all’altro giorno del tutto sconosciuti. Dunque, come recita il risvolto di copertina, siamo felicemente costretti "a riaprire il cantiere degli studi gozziani".


Secondo centenario

L’origine dell’operazione di oggi risale al 2006, in occasione del secondo centenario della morte di Carlo Gozzi (1720 – 1806), quando la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia mette a disposizione il Fondo omonimo, ovvero l’archivio familiare rinvenuto nella villa di Pasiano di Pordenone. Si tratta di 9500 carte manoscritte, dalle quali si prospetta l’emersione di vari tesori, oltre ai testi che nel volume di cui trattiamo sono offerti per la cura di Fabio Soldini e Piermario Vescovo. Entrambi, nelle rispettive prefazioni al materiale di "Commedie in commedia", giustamente non nascondono un soddisfatto entusiasmo, vista la qualità degli inediti. Soprattutto risulta evidente alla semplice lettura come il materiale proposto sia in grado di arricchire il panorama del mondo teatrale di quegli anni d’oro, magari nel riferimento insistito alla figura più illustre di quel paesaggio d’uomini, attori, teatri, cioè l’avvocato Goldoni, l’esiliato francese che lascia il grande vuoto in città alla sua dipartita, figura colossale che Gozzi non riuscirà mai fino in fondo a comprendere, né tanto meno amare, armandosi di un disprezzo pieno e tormentoso, finendo in certo modo con l'essere avviluppato da quella scia goldoniana comunque impossibile da ignorare.


La turba

"La turba de’ maledici indiscreta/sostiene ch’io non sia, ma son Poeta./Cambiai mestier parecchi in cinquant’anni;/fui Medico, Assessore, pien d’affanni,/nel Foro non potei rifare i panni,/di dieci lustri diventai Poeta./Per gl’Istrion scenari componeva,/undici lire l’uno li vendeva,/nessuno ancora Poeta mi diceva/e m’era necessario esser Poeta./Col studio mio della madre natura/copiai de’ fatti altrui la spazzatura,/la posi in versi e in prosa alla ventura,/e la chiamai Commedie, e fui Poeta". Gozzi si scaglia contro Goldoni con la solita violenza impietosa, spesso dagli esiti fra il crasso e l’esilarante. Il componimento di cui sopra è "Canto d’un poeta", successivo peraltro al ritratto offerto in "Le gare teatrali", il più importante inedito contenuto nel volume Marsilio, risalente al 1751, dieci anni prima che Gozzi strappasse a Venezia il suo primo grande successo, l’"Amore delle tre melarance". Ne "Le gare" la dimensione è imprescindibilmente quella metateatrale, argomento del resto sviluppato da Goldoni con ferma e convinta teoria, fino a farne una sorta di "dramma didattico" utilissimo alla diffusione del poetare teatrale nuovo, della scrittura riformata: parliamo naturalmente del "Teatro comico", per l’avvocato pietra angolare, più che del palcoscenico, delle edizioni a stampa dei suoi lavori. Nella commedia gozziana la disfida teatrale è tra Pasticcio ossia Goldoni, e Girandola ossia Chiari (l’ex gesuita dalla penna inarrestabile). Come avviene nella composizione poetica che abbiamo citato (intitolata "Canto d’un Poeta"), anche le sorti di Pasticcio sono sempre pericolanti: "Non voglio dirvi poi a quante professioni m’appigliai per vivere e in tutte me la passai infelicemente; vi dirò insino che fui per fare il salta in banco in piazza". E ancora, ricalcando la lezione goldoniana "Mondo" e "Teatro" ma in senso degradato: "Il mondo e il teatro sono i miei libri, e particolarmente i bordelli; oh ne’ bordelli ho imparato assai, vedete, è un gran bel libro quello per far commedia". Mai che Gozzi mostri un briciolo di clemenza. L’età, poi, non lo addolcisce. Il suo astio ha un che di patologico, di irriducibile. Pure nella maturità il caso Goldoni non gli dà pace, ma ormai lo commenta con amarezza. "Se questo scrittore avesse avuto quella colta educazione, che riduce i talenti a rettamente, ed elevatamente pensare, e a leggiadramente scrivere, e si fosse ristretto a un picciolo numero di commedie ben ponderate, egli era assolutamente un genio capace di fare a sé medesimo, e all’Italia nel comico genere un onore immortale". E fin qui il preludio. Ma, considerato tutto, piomba il giudizio negativo, pensoso. Visto che Goldoni "non seppe fare quel buon uso e non ebbe quelle facoltà. Espose sul teatro tutte quelle verità che gli si pararono dinnanzi, ricopiate materialmente e trivialmente, e non imitate dalla natura, né con l’eleganza necessaria ad uno scrittore". Pare incredibile, ma il tormento non passa. Soldini e Vescovo scrivono sì dell’astio e della "polarizzazione antigoldoniana" della tramatura della commedia, ma non trovano un perché. Anche esaminando questo volume a fondo, non si trova una risposta esauriente al quesito, peraltro caratterizzante Gozzi.


Invidia?

Eppure, cosa aveva da invidiare a Goldoni? Gozzi, cresciuto in un ambito teatrale di tipo "nobiliare", socialmente elevato, pare dotato di un talento naturale. Non è giovanissimo quando scrive "Le gare teatrali", 31 anni, ma il brio con cui affronta con tono professionistico la commedia non lascia intravedere carenze. Non è vano esercizio ma commedia scritta per essere rappresentata. Addirittura, virtuosisticamente, ed aumentando i diaframmi metateatrali, fa circolare in scena il copione che il lettore sta leggendo (e lo spettatore a quello in ipotesi assistendo), cioè "Le Gare", una commedia che viene dal Perù. E dunque: "Zanetto: Dal Perù?/Barbino: Sì, si deve dire dal Perù/Zanetto: E’ permesso savér el titolo?/Barbino: Ella è intitolata: Le Gare teatrali". Ha perfettamente ragione Fabio Soldini quando scrive che si tratta di "un gioco di specularità complesso e articolato che fa della ritrovata pièce gozziana un testo rilevante e originale". Oltretutto con un intento principalmente etico (basta con la discordia sociale generata da alcune commedie) come Soldini dimostra agevolmente.


Addio

Tutta la produzione di questo volume viaggia su livelli elevati. Si prenda ad esempio quell’elegante breve pastiche fra sublime e suo opposto, quella pluralità di voci dell’"Addio per Venezia 1763". Significativo il galateo teatrale per stabilire chi debba pronunciare il congedo, nel senso che tutte le donne della compagnia declinano il compito: "ed insomma, fa’ tu, fa’ tu, fa’ tu", come dice Andriana la quale, avendo sempre giocato la parte della serva, si oppone ad essere scelta. Anche una sola battuta è ricca di implicazioni: "La serva!/eh via./Ambasciatrice a un nobile uditorio/la serva s’esporrà? Non è decenza./L’addio dev’esser dato in stil sublime,/da una persona nobile. A voi tocca". Dove privilegio di classe, seppur in chiave ironica, e spiegazione metateatrale (e nel "metateatro" Gozzi s’arrovella, scuotendo la "filosofia" della materia con passione vera) finiscono per coincidere in maniera perfetta; la ritualità sociale diviene ritualità teatrale senza il minimo sforzo. Gozzi, in modo quasi istintivo, si direbbe, ribadisce ostinatamente una sua idea di teatro. Ciò che non rientra nei suoi schemi lo infastidisce. Ed è sorprendentemente sincero nell’esporre il suo pensiero reazionario, conservatore, aristocratico. Gozzi è l’autore delle fiabe: ma cos’è la fiaba? "La gh’è el serio, el ridicolo, el maravegioso, la passion, tutti se fa onor insomma", come precisa Atanagio ne "Le convulsioni", da collocare non negli immediati inizi di carriera ma nei primi anni Sessanta.


Premeditazione

E se un approccio teatrale professionale caratterizza i suoi primi progetti, il Gozzi, ove goldonizzato (e magari nell’assenza fisica del nemico), si mantiene comunque lustro e impeccabile negli anni. La commedia è tutta scritta e già ambientata, un "testo premeditato", con didascalie di scarna essenzialità, badando alla psicologia dei personaggi, che Gozzi schizza con rapido tratto: alle spalle la maschera ma vivo il "carattere" teatrale, in modo preciso, colto, dove si intravede l’autore. Insomma, esattissimo descrittore di uno stato d’animo di una società non solo classista, ma anche con punte di reazione: un Brecht sarebbe ben soddisfatto. E magari non è un caso che abbia scelto la "Turandot" di Gozzi (già amata anche dal mitico Vachtangov nel 1922) e non di Schiller per la sua ultima opera. Certo, si è magari autorizzati a dire che, a confronto di Gozzi, un ricamatore, un restauratore, Goldoni risulta un vero e proprio terremotatore. E del resto, come tutti i grandi commediografi, sa piegare il teatro del suo tempo per crearne un altro, diverso e suo, senza che la lastra della lezione sottostante abbia a svanire totalmente. E anche il tempo e lo spettatore sembrano aver dato ragione più a Goldoni che a Gozzi, autore non certo trascurato, ma in ogni modo molto meno celebre oggi rispetto all’avvocato, in effetti un gigante del teatro universale. E’ probabile che le prossime uscite di inediti (che pur ci sono) riescano ancora a gettare maggiore luce – in pratica abbiamo Gozzi alle prese con la commedia - sulla intelligente, sensibile e sfaccettata arte gozziana. Che, in questo volume, oltre ai testi già citati, è arricchita, come si è visto, dalle "Convulsioni", una immersione straordinaria, in presa diretta, nella realtà delle compagnie, di assoluto valore, come minimo documentario, anche se c’è molto di più. L’altro testo di rilievo, "La cena mal apparecchiata", è un atto unico, nel bel commento del quale Piermario Vescovo mostra la libertà che Gozzi fu in grado di prendere rispetto al modello francese da cui la commedia deriva. In ogni caso, un volume da avere in qualsiasi biblioteca che si rispetti. E anche i più incalliti goldoniani, quelli che considerano Gozzi un personale nemico, saranno estasiati da tale carrellata irresistibile in un’epoca e una città d’oro.

domenica 20 maggio 2012

In memoria di James Hillman, anarco-junghiano

Non è esattamente compito facile, quando ancora non si è spenta la commozione intorno al corpo di James Hillman, divorato dal quel cancro cui aveva voluto concedere solo dosi ridotte di morfina per mantenere la lucidità e la facoltà di pensare fino al secondo estremo, tentare un pur rozzo e sbrigativo bilancio della sua figura, di psicologo, scrittore, "filosofo" (come qualcuno aveva incominciato a chiamarlo negli ultimi anni – e con un’approssimazione che non ci piace molto perché la consideriamo deviante). Non si può negare infatti che Hillman, spentosi a 85 anni, parta da un filone di "scienza", di analisi; sia la punta più avanzata della decomposizione dello junghianesimo (ove esiste, anche lì, un’accademia reazionaria, irrigidita alla stessa stregua dei freudiani), da cui pur egli inizia il suo lungo cammino di destrutturazione anarchica della dottrina. Tuttavia si rischia seriamente che l’ultimo Hillman rimanga appeso al nulla ove lo si sciolga totalmente dal backgrond dove si forma, che resta sostanzialmente, come si diceva, junghiano. Il suo volume "Re-visione della psicologia", testo fondamentale del Novecento (esce nel ’75, viene tradotto per i tipi di Adelphi otto anni dopo), pur nella veste ancora "sturm und drang" del terapeuta ribelle, conserva una struttura espositiva più o meno tradizionale, pur con le sue straordinarie "digressioni", concepite quasi a voler ampliare e completare un percorso a briglia ormai sciolta di cui non si vedeva confine o recinto. Quello delle digressioni è un costante, tormentoso esercizio per mettere a fuoco idee e concetti che, per la prima volta con Hillman, pur egli non nascondendo, come si diceva, la scaturigine junghiana, hanno l’occasione di essere liberati dai recinti tradizionali, strettissimi. Silvia Ronchey, che ha potuto frequentarlo fino al limite estremo – ce lo descrive sofferente, assai cauto con l’uso di sedativi, speranzoso che i cuscini del divano possano attutire i dolori – ha giustamente scritto, sulla "Stampa", che in Hillman, "alla scommessa, pacata e implicita, di restare pensante, lucidamente pensante e dialogante, di spingere la ricerca razionale fino all’estrema soglia della biologia, si sommava un’incessante attività di ricerca interiore, di introspezione psicologica: un esercizio estremo di quella ‘visione in trasparenza’ di cui aveva parlato nei suoi scritti, e che lo ha portato all’ultima frontiera dell’io in uno stato di continuo ascolto dei messaggi della psiche, e non solo di quella conscia". Anche se la divisione in psiche conscia e, evidentemente, "inconscia", risuona un po’ strana. C’è la psiche, e tanto basti. E deve pur bastare, visto che il suo mare è immenso e il più delle volte inguardato, inascoltato. Ma, si badi bene, "è impossibile guardare la psiche dal di fuori, oggettivamente, così come è impossibile uscire da noi stessi. Se qualcosa siamo, siamo psiche. E poiché l’inconscio relativizza qualsiasi formulazione della coscienza integrandola con una posizione opposta e ugualmente valida, nessuna affermazione della psicologia può avere certezza. La verità rimane incerta, giacché la morte, che è l’unica certezza, non rivela la sua verità". Siamo, con questa affermazione, addirittura nel 1964, alla prima prefazione de "Il suicidio e l’anima". Il "dottor" Hillman sembra già avere le idee chiare, in special modo quando parla di psiche e morte, dato che dimostrerà, molti anni dopo (ed è giusto l’altroieri) una assoluta coerenza fra il suo sterminato impianto teorico (sterminato perché la psiche è tale) e il suo proprio morire. Ma toccante è anche, nella prosa hillmaniana primi Sessanta, quel residuo dottorale, si direbbe quasi freudiano sebbene di contenuto junghiano (e cioè "l’inconscio relativizza" ciò che gli detta la coscienza, opponendo ad una affermazione il suo opposto, "egualmente valido"), che sembra ancora interessarlo. Certo, alla nota del ’64 farà seguito un’introduzione del 1976, una sorta, sono parole del Nostro, di "aggiunta a margine". Un po’ come se, una raggiunta maturità - Hillman nel ’76 è un cinquantenne – lo portasse a ripercorrere i suoi passi. E sempre nel prezioso libro (edito in Italia, come la maggioranza delle sue opere, da Adelphi) ecco i ripensamenti del 1997. "Universale ed eterno, il suicidio è un evento archetipico; il nostro modo di guardarlo, tuttavia, è condizionato dal tempo". Il che è una prova di quel tormentoso continuo interrogarsi, per provocare l’oggetto di indagine, quasi stregonescamente evocando i fantasmi, sempre con la coscienza di procedere per approssimazione, poiché, "per quanto tu cammini, e anche percorrendo ogni strada, non potrai raggiungere i confini dell’anima: tanto profonda è la sua vera essenza". Sono concetti di Eraclito che per Hillman costituirono per tutto il cammino una sorta di Stella Polare.


Anarchia!

L’Hillman che si distacca da Jung, che diviene un "anarco-junghiano", come ci è sempre piaciuto chiamarlo (e nel contempo avevamo l’assurda sensazione di una sua immortalità fisica), ci pare nutra l’ambizione del rifondatore. Ove il rifondatore è il liberatore. Del suo "Re-visione della psicologia", al quale si ricorre in continuazione, essendo una sorta di summa, dice che si tratta di "un libro all’antica e radicalmente nuovo, perché riprende bensì le nozioni classiche dell’anima, ma avanza idee che la psicologia attuale non ha neppure cominciato a prendere in considerazione". In pieno periodo "eroico" – metà Sessanta - Hillman confessava di avere imboccato la via della follia. Nella prefazione ad "Anima" (in italiano per Adelphi, 1989) scrive: "Che istigatrice sa essere Anima. E tuttavia non so se questo libro, che mirava a chiarirne la nozione nella mia mente, sia poi servito a districarne gli effetti nella mia vita. Ancora oggi mi difendo da lei sia con le idealizzazioni sia con lo scetticismo". Sembra quasi di essere in presenza delle confessioni di uno Jung maturo intento a fare un bilancio della sua vita. Ne "Il potere", un best seller Rizzoli (2002), Hillman non abbandona in realtà la cattedra, né dà l’impressione di averne avuto l’intenzione: "Il modo in cui affronterò questo tema sarà quello di uno psicoanalista perché, dopo tutto, questo io sono: uno che da lungo tempo insegna e pratica la psicanalisi". Lascia un po’ interdetti, dopo aver portato queste pur non abbondanti prove a carico, il fatto che Hillman sia da più parti visto non come un indagatore d’anima, cioè uno psicologo, ma un generico filosofo, magari quasi una sorta di opinionista, di classe, certo, superiore. Naturalmente senza volere a lui togliere il merito assoluto di aver disegnato e seguito potenti arcate interdisciplinari. Se il discorso sull’anima, l’essenza dell’anima ("psyché" unita a "logos") è il suo mestiere, la sua missione, Hillman può uscire dal seminato proprio perché ha gli strumenti, le leve giuste, teoricamente maturate, per portare a termine lo scoperchiamento della pietra, mettendo a nudo il brulichìo che vi si nascondeva sotto. Anzi, spaccando il vaso e favorendo il caos che si trovava compresso. Un’indicazione può essere utile in questo senso, quando scrive che "il lavoro della psicologia è quello di offrire una via e di trovare un posto per l’anima nel campo che le è proprio". Peccato - ecco il punto di partenza hillmaniano - che per parlare d’anima si siano trovati sempre linguaggi sbagliati e posti impropri. "Per ‘anima’ – prosegue – io intendo, prima di tutto, più che una sostanza, una prospettiva, più che una cosa in sé, una visuale sulle cose". Ecco una definizione illuminante: anima è prospettiva, è specola. L’ultimo Hillman, ad esempio quello dell’"Anima dei luoghi" (altra traduzione Rizzoli) si interroga sul paesaggio e sulla città. Su ciò che abita le città. Anche sulle Torri Gemelle (nel 2004 erano già venute giù): "C’è una pressione economica del settore dell’edilizia per ricostruire le torri ancora più alte, ignorando la memoria – perché quel luogo è diventato uno spazio sacro, un luogo di sepoltura, un luogo funereo e tragico. Ormai l’idea di distruzione appartiene a quel luogo. La distruzione, non solo la costruzione. E’ come una ferita che lascia una cicatrice, c’è memoria nella cicatrice, la cicatrice è memoria". Hillman si pone domande sui luoghi, sulla loro anima e sulle divinità dei luoghi. Mantiene la sua visone in trasparenza, visone d’anima, fino all’ultimo. E non si dimentica di sacrificare ai luoghi, alle divinità dei luoghi. "Attenzione a non peccare contro gli dei. Mai, in nessuna occasione". Sono le ultime parole del modernissimo, scrutatore, antichissimo guaritore di Atlantic City. 1926-2011.

Peter Handke: in attesa di aver letto "La notte della Morava", qualche nota su "La montagna di sale", suo romanzo del 2011



Nell’Europa dell’ottovolante finanziario - ormai preoccupazione giornaliera delle vacanze, per chi in vacanza è andato facendo finta di niente (si era nel settembre 2011, con una crisi non ancora rivelatasi – o pubblicamente rivelata) – ove si colloca l’Europa di Peter Handke, in pratica uno dei pochi autori in possesso di inconscio e coscienza europei, come si leggeva sul "Riformista" in occasione della recensione dell’ultimo libro del noto austriaco, "La montagna di sale" (Garzanti, pp. 103, euro 15,00)? L’Europa di Handke è prima e dopo l’Europa di oggi. Il suo centro (che per Handke si situa in una Mitteleuropa assai screziata di Est) è il sottosuolo, nel fondo di una miniera di sale che si colloca in basso, fino alle viscere della terra. E’ l’ultima delle miniere di sale che si sviluppano in verticale, visto che per tutte le altre si deve parlare di estensione in orizzontale. E’ l’Europa della discesa classica agli inferi di ovvio richiamo faustiano (ma anche un poco cinematografico, in fondo), però senza Madri onnipotenti latrici di messaggi, salvifici o meno. Al posto delle dee, che bene o male un tempo facevano da fondamenta, una "pastora" riformata che denuncia lo scandalo della scomparsa dei bambini, anzi di un bimbo solo, senza che per questo il romanzo (di questo si tratta, anche se forse allo sguardo d’oggi subito non parrebbe) manchi di happy ending buttata lì, ultima scheda fra le schede, tassello conclusivo di una mosaico di "stanze", "lasse". Quasi appunto schede che fratturano/compongono la narrazione orizzontale, demandando al ricongiungersi in sé della particola narrativa l’ipotetico compito di sondare in profondità, in questo potendosi intuire una "mostruosa" costruzione cattedralica di corrispondenze micro/macro che in ogni caso non viene denunciata pienamente ma che in qualche modo si è invogliati a percepire. Lo scheletro, insomma, che nulla toglie al continuum narrativo – questo sì, archetipico – del viaggio. Per il recensore di "Die Zeit" si spiega dunque la dimensione di "racconto epico sui temi della partenza, dello smarrimento, della ricerca e del ritorno". Il che è forse tuttavia un poco troppo sintetizzare la materia in foggia squadrata, mirando a collezionare il fascio tematico del diario di bordo: con la domanda seguente, vale a dire: da chi sarebbe tenuto questo diario? O meglio: chi guarda il tutto, mettendo insieme, incollando carte e tasselli, stanze e lasse? Difficile la risposta, che più che altro pare intenzionata a non esserci. "Anche a me lei ha fatto paura, fa paura. Ma vorrei affrontarla". Inizio con promessa di femme fatale, personaggio mantenuto nel suo svolgersi e insieme tradito, se di tradimento nel caso si può mai parlare, visto che costei, la cantante, si dà nel suo svanire in materia altra. E’ di sicuro personaggio, lo si avverte, ma mai centrale tanto da calamitare l’attenzione tutta. Sarà magari il paesaggio, allora, a fare da attrattore. "La montagna di sale e l’insediamento nella prima luce del mattino. Alcuni camini fumanti, pochi. Assenza quasi totale di persone, eccetto la figura del custode, in divisa da lavoro, con un berretto a visiera, nella piccola portineria". Handke non centellina la didascalia, il cinematografo, la sceneggiatura. Che sia per l’ennesima volta prova provata di "école du regard", scuola instabile e ormai vecchia, dove il nostro capitò in giovinezza, fu inscritto magari a forza? Sarà che ormai parlare di Handke è parlare di poeta laureato, lontano ad esempio anni luce dallo sperimentalismo perfettissimo di un Robbe-Grillett tempestoso e precisissimo già agli esordi. Handke pur concede speranze al sentimento, in questo, magistralmente, illudendo, seminando venature di pietas e nascondendo la mano che volle suscitare emozioni. E il décor stesso si integra nel sistema di una descrizione che non cede mai alla fotografia, al rilevamento puro del dato. "La camera inizialmente ben illuminata, dove lei poi si ritrova sola, assomiglia alla stanza a baldacchino della notte precedente, nel luogo di residenza della madre". Ove però tutto assomiglia a tutto, allora, configurandosi il picco emotivo, ma piallando lo scrittore le asperità con una messa in scena stilistica tutta sua, ben tenuta sotto controllo, del resto, dalla traduzione dal tedesco degli allievi della scuola di specializzazione di Torino coordinati da Claudio Groff, cui Handke certo suona di famiglia.


Cantante, forse badante

E chissà se poi la viaggiatrice, la cantante, dopo aver compiuto un viaggio in pullman come una badante dell’Est qualsiasi spersa per le nostre contrade e città, aver contattato la madre che svanisce in un finale espressionista ("Costei, sempre più lontana, al piano di sopra passa da una stanza illuminata all’altra, con le braccia levate simili a moncherini"), esser finalmente (ma solo perché si deve onorare l’idea di "finale", di "fine") approdata nella zona della montagna/miniera di sale, cerchi una qualche triangolazione familiare con l’uomo della miniera, l’uomo del sale, provvisto di figlio/servo/studente ("Non ci sei, caro papà. Non ci sei più. E’ da tantissimo tempo che non ci sei più"). Fatto sta che la pantomima teatrale, con cambiamento d’abito per la cena (ecco "l’uomo mentre ritorna, cambiato d’abito per la loro serata, reggendo sul braccio un vestito consono anche per lei"), si risolve in seguito nella discesa agli inferi, negli strati più bassi della miniera. Intorno a loro, al villaggio di minatori tutti venuti dall’Est, si starebbe svolgendo anche una sorta di nuova guerra mondiale, evidentemente non così palese, ma il micro della dimensione paesana obbliga ai drammi quotidiani, spinge la pastora alle prediche (un aereo militare tuona intanto sopra la chiesa) e invita alle feste, anche quelle del giorno dopo: "E non c’è niente di meglio degli avanzi".


Finalmente domenica

Intanto, sul fondo, il dramma della purificazione, tutta alla Handke, si sarebbe compiuto: non resta che, previo nuovo cambio d’abito, avviarsi alle celebrazioni della domenica. "Alle sue ultime frasi era entrato il padre, con l’abito della festa, come forse un tempo in un altro paese; pronto per andare in chiesa. Del resto anche suo figlio era già in parte vestito nello stesso modo. E adesso, aiutato dall’estranea, s’infilò le maniche della giacca nera da festa, che lo fece poi sembrare quasi adulto". Metamorfosi minime, che la lente di Handke ingigantisce. Narrazione, però, tutt’altro che minima, anche se l’odissea presunta è raccolta in un centinaio di preziosissime pagine. Che devono certo avere in qualche modo "turbato" (il che sarebbe già merito non irrilevante) i recensori di quello che a distanza ravvicinata, dunque dopo aver fatto decantare le impressioni, ci pare proprio (ha ragione il risvolto di copertina) un piccolo gioiello. Lo strano è che il recensore di turno in genere ha posto quasi le mani avanti, facendo presente che di romanzo "sui generis" si sarebbe trattato. Così ragionando, forse (è solo un'ipotesi), è come si valutasse il lettore quale infante, che si presume in modo disarmante disabituato alla pur minima invenzione letteraria, quasi una sorta di bambino cui bisogna raccontarla giusta se no si infastidisce e chiude il libro. Strano, negli anni Settanta, ma forse anche Ottanta, eravamo abituati ad una presenza maggiore dello sperimentalismo in narrativa. Insomma, lo sperimentalismo soft ed elegantissimo di Handke (in soldoni: lo stile suo, ormai "neoclassico contemporaneo") ha bisogno dell’etichetta, delle istruzioni per l’uso? Magari ha ragione Gabriele Pedullà che, sul domenicale del "24 Ore", scriveva che, da qualche tempo, "l’affermazione che lo stile non ha alcuna importanza per giudicare del valore di un romanzo ricorre sempre più spesso nelle recensioni di critici autorevoli". Nel Novecento, insomma, si tifava – ed è vero – per un autore o per l’altro. Soprattutto per lo stile di un autore rispetto a quello di un rivale. Oggi, in piena Terza Guerra Mondiale (ma sì, ha ragione Handke), un autore settantenne notissimo deve andare ancora in giro con la pecetta sulla quale è scritto in che modo il capo di vestiario va lavato (leggi: digerito)?