domenica 20 maggio 2012

In memoria di James Hillman, anarco-junghiano

Non è esattamente compito facile, quando ancora non si è spenta la commozione intorno al corpo di James Hillman, divorato dal quel cancro cui aveva voluto concedere solo dosi ridotte di morfina per mantenere la lucidità e la facoltà di pensare fino al secondo estremo, tentare un pur rozzo e sbrigativo bilancio della sua figura, di psicologo, scrittore, "filosofo" (come qualcuno aveva incominciato a chiamarlo negli ultimi anni – e con un’approssimazione che non ci piace molto perché la consideriamo deviante). Non si può negare infatti che Hillman, spentosi a 85 anni, parta da un filone di "scienza", di analisi; sia la punta più avanzata della decomposizione dello junghianesimo (ove esiste, anche lì, un’accademia reazionaria, irrigidita alla stessa stregua dei freudiani), da cui pur egli inizia il suo lungo cammino di destrutturazione anarchica della dottrina. Tuttavia si rischia seriamente che l’ultimo Hillman rimanga appeso al nulla ove lo si sciolga totalmente dal backgrond dove si forma, che resta sostanzialmente, come si diceva, junghiano. Il suo volume "Re-visione della psicologia", testo fondamentale del Novecento (esce nel ’75, viene tradotto per i tipi di Adelphi otto anni dopo), pur nella veste ancora "sturm und drang" del terapeuta ribelle, conserva una struttura espositiva più o meno tradizionale, pur con le sue straordinarie "digressioni", concepite quasi a voler ampliare e completare un percorso a briglia ormai sciolta di cui non si vedeva confine o recinto. Quello delle digressioni è un costante, tormentoso esercizio per mettere a fuoco idee e concetti che, per la prima volta con Hillman, pur egli non nascondendo, come si diceva, la scaturigine junghiana, hanno l’occasione di essere liberati dai recinti tradizionali, strettissimi. Silvia Ronchey, che ha potuto frequentarlo fino al limite estremo – ce lo descrive sofferente, assai cauto con l’uso di sedativi, speranzoso che i cuscini del divano possano attutire i dolori – ha giustamente scritto, sulla "Stampa", che in Hillman, "alla scommessa, pacata e implicita, di restare pensante, lucidamente pensante e dialogante, di spingere la ricerca razionale fino all’estrema soglia della biologia, si sommava un’incessante attività di ricerca interiore, di introspezione psicologica: un esercizio estremo di quella ‘visione in trasparenza’ di cui aveva parlato nei suoi scritti, e che lo ha portato all’ultima frontiera dell’io in uno stato di continuo ascolto dei messaggi della psiche, e non solo di quella conscia". Anche se la divisione in psiche conscia e, evidentemente, "inconscia", risuona un po’ strana. C’è la psiche, e tanto basti. E deve pur bastare, visto che il suo mare è immenso e il più delle volte inguardato, inascoltato. Ma, si badi bene, "è impossibile guardare la psiche dal di fuori, oggettivamente, così come è impossibile uscire da noi stessi. Se qualcosa siamo, siamo psiche. E poiché l’inconscio relativizza qualsiasi formulazione della coscienza integrandola con una posizione opposta e ugualmente valida, nessuna affermazione della psicologia può avere certezza. La verità rimane incerta, giacché la morte, che è l’unica certezza, non rivela la sua verità". Siamo, con questa affermazione, addirittura nel 1964, alla prima prefazione de "Il suicidio e l’anima". Il "dottor" Hillman sembra già avere le idee chiare, in special modo quando parla di psiche e morte, dato che dimostrerà, molti anni dopo (ed è giusto l’altroieri) una assoluta coerenza fra il suo sterminato impianto teorico (sterminato perché la psiche è tale) e il suo proprio morire. Ma toccante è anche, nella prosa hillmaniana primi Sessanta, quel residuo dottorale, si direbbe quasi freudiano sebbene di contenuto junghiano (e cioè "l’inconscio relativizza" ciò che gli detta la coscienza, opponendo ad una affermazione il suo opposto, "egualmente valido"), che sembra ancora interessarlo. Certo, alla nota del ’64 farà seguito un’introduzione del 1976, una sorta, sono parole del Nostro, di "aggiunta a margine". Un po’ come se, una raggiunta maturità - Hillman nel ’76 è un cinquantenne – lo portasse a ripercorrere i suoi passi. E sempre nel prezioso libro (edito in Italia, come la maggioranza delle sue opere, da Adelphi) ecco i ripensamenti del 1997. "Universale ed eterno, il suicidio è un evento archetipico; il nostro modo di guardarlo, tuttavia, è condizionato dal tempo". Il che è una prova di quel tormentoso continuo interrogarsi, per provocare l’oggetto di indagine, quasi stregonescamente evocando i fantasmi, sempre con la coscienza di procedere per approssimazione, poiché, "per quanto tu cammini, e anche percorrendo ogni strada, non potrai raggiungere i confini dell’anima: tanto profonda è la sua vera essenza". Sono concetti di Eraclito che per Hillman costituirono per tutto il cammino una sorta di Stella Polare.


Anarchia!

L’Hillman che si distacca da Jung, che diviene un "anarco-junghiano", come ci è sempre piaciuto chiamarlo (e nel contempo avevamo l’assurda sensazione di una sua immortalità fisica), ci pare nutra l’ambizione del rifondatore. Ove il rifondatore è il liberatore. Del suo "Re-visione della psicologia", al quale si ricorre in continuazione, essendo una sorta di summa, dice che si tratta di "un libro all’antica e radicalmente nuovo, perché riprende bensì le nozioni classiche dell’anima, ma avanza idee che la psicologia attuale non ha neppure cominciato a prendere in considerazione". In pieno periodo "eroico" – metà Sessanta - Hillman confessava di avere imboccato la via della follia. Nella prefazione ad "Anima" (in italiano per Adelphi, 1989) scrive: "Che istigatrice sa essere Anima. E tuttavia non so se questo libro, che mirava a chiarirne la nozione nella mia mente, sia poi servito a districarne gli effetti nella mia vita. Ancora oggi mi difendo da lei sia con le idealizzazioni sia con lo scetticismo". Sembra quasi di essere in presenza delle confessioni di uno Jung maturo intento a fare un bilancio della sua vita. Ne "Il potere", un best seller Rizzoli (2002), Hillman non abbandona in realtà la cattedra, né dà l’impressione di averne avuto l’intenzione: "Il modo in cui affronterò questo tema sarà quello di uno psicoanalista perché, dopo tutto, questo io sono: uno che da lungo tempo insegna e pratica la psicanalisi". Lascia un po’ interdetti, dopo aver portato queste pur non abbondanti prove a carico, il fatto che Hillman sia da più parti visto non come un indagatore d’anima, cioè uno psicologo, ma un generico filosofo, magari quasi una sorta di opinionista, di classe, certo, superiore. Naturalmente senza volere a lui togliere il merito assoluto di aver disegnato e seguito potenti arcate interdisciplinari. Se il discorso sull’anima, l’essenza dell’anima ("psyché" unita a "logos") è il suo mestiere, la sua missione, Hillman può uscire dal seminato proprio perché ha gli strumenti, le leve giuste, teoricamente maturate, per portare a termine lo scoperchiamento della pietra, mettendo a nudo il brulichìo che vi si nascondeva sotto. Anzi, spaccando il vaso e favorendo il caos che si trovava compresso. Un’indicazione può essere utile in questo senso, quando scrive che "il lavoro della psicologia è quello di offrire una via e di trovare un posto per l’anima nel campo che le è proprio". Peccato - ecco il punto di partenza hillmaniano - che per parlare d’anima si siano trovati sempre linguaggi sbagliati e posti impropri. "Per ‘anima’ – prosegue – io intendo, prima di tutto, più che una sostanza, una prospettiva, più che una cosa in sé, una visuale sulle cose". Ecco una definizione illuminante: anima è prospettiva, è specola. L’ultimo Hillman, ad esempio quello dell’"Anima dei luoghi" (altra traduzione Rizzoli) si interroga sul paesaggio e sulla città. Su ciò che abita le città. Anche sulle Torri Gemelle (nel 2004 erano già venute giù): "C’è una pressione economica del settore dell’edilizia per ricostruire le torri ancora più alte, ignorando la memoria – perché quel luogo è diventato uno spazio sacro, un luogo di sepoltura, un luogo funereo e tragico. Ormai l’idea di distruzione appartiene a quel luogo. La distruzione, non solo la costruzione. E’ come una ferita che lascia una cicatrice, c’è memoria nella cicatrice, la cicatrice è memoria". Hillman si pone domande sui luoghi, sulla loro anima e sulle divinità dei luoghi. Mantiene la sua visone in trasparenza, visone d’anima, fino all’ultimo. E non si dimentica di sacrificare ai luoghi, alle divinità dei luoghi. "Attenzione a non peccare contro gli dei. Mai, in nessuna occasione". Sono le ultime parole del modernissimo, scrutatore, antichissimo guaritore di Atlantic City. 1926-2011.

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