martedì 29 maggio 2012

Porfirio, scene da basso impero

Mondo pagano e mondo cristiano in drammatico, pericolante equilibrio. Lo sfondo è quanto mai da basso impero. Giunse, un dì, su questa terra, un Cristo del tutto inconcepibile rispetto alla enorme, distesa tradizione platonica, puntellata dalle sue modalità in realtà legate alle varie prospettive interpretative di come la divinità potesse palesarsi nel mondo. O l’uomo ad essa risalire, per quali scale d’anima. Realtà degradata, quella mondana, tanto che il sapiente, o il di lui seguace, spendeva il suo impegno nel percorrere le strada a ritroso nel miraggio di un ricongiungimento. Padri della Chiesa e filosofi della religione antica gli uni contro l’altra armati. Porfirio, allievo prediletto e combattivo di Plotino, non subì il fascino della conversione al nuovo e si impegnò con la parola scritta e l’insegnamento a dimostrare l’inconsistenza e l’"ignoranza" dei cristiani, qualifica del resto d’ordinanza all’interno dell’ambiente neoplatonico. "Nessuna meraviglia che i più ignoranti considerino le statue pezzi di legno e di pietra, proprio come quanti non capiscono la scrittura guardando le steli come pietre, come legno le tavolette e come papiro intessuto i libri". Così il sapiente, ma anche maestro di cerimonie mistiche e riservate, in un frammento iniziale di "Sui simulacri", "Perì agalmátōn", resuscitato in queste settimane in una generosa edizione Adelphi (introduzione e commento di Mino Gabriele, traduzione di Franco Maltomini, pp. 287, euro 17,00). Opera, si diceva, frammentaria, destinata alla scomparsa, alla cenere, se Eusebio di Cesarea non ne avesse citato varie parti nella "Praeparatio evangelica", ovviamente col compito di mostrare gli errori della religione falsa e menzognera. Porfirio di Tiro (233-305 d. C.) qui, nonostante il veleno sparso dalla patristica, temente di perdere la sua battaglia, procede regalmente nella dissertazione, a metà fra la celebrazione rituale e l’ambizione didattica. Non basta, poiché "Perì agalmátōn" va visto come manuale e guida specializzata "tematicamente" nella foresta simbolica. Ma, si badi bene, avverte Porfirio, "parlerò per chi è lecito". E dunque, "voi profani chiudete le porte". Porfirio svelerà. E’ ierofante, cioè anche sacerdote, ma dispensatore di saggezza dal consumato profilo. La sua è lectio magistralis, cerimonia e guida. Alle sue spalle il dispiegamento della sapienza si è già consumato: "Mediante questi simboli, dunque, viene disvelata la forza della terra". Porfirio è conscio della pratica dell’uso simbolico delle imagines, dell’ágalma. Il simbolo, ciò che sta al posto di altro, come precisa Gabriele nell’introduzione, "smesso l’abito ‘di chi fa le veci’ può apparire come ‘cosa’ in sé, autosufficiente, fino a proporsi, specialmente in ambito mistico-religioso, come una teofania, sino a diventare esso stesso oggetto di culto". Dunque, da mero supplente per un invisibile comunque costantemente irraggiungibile, "a soggetto autonomo". Solo la dimensione simbolica, insomma, è in grado di azzardare l’impresa di riprodurre e dare nome "a idee impalpabili, agli dèi e all’aldilà, ai primi princìpi e alle più occulte ragioni delle cose sino all’ineffabile". Il simbolo, il simulacro, vive in questa costitutiva ambiguità che, appunto, lo sostanzia: escluso il suo essere solo come somma delle caratteristiche del materiale di cui è fatto (i polemisti cristiani battevano proprio su questo tasto, all’infinito: dietro la materia, niente) è la migliore introduzione ad altro, all’Altro. E’ la porta, la visio all’umana tensione verso il soprannaturale. Le speculazioni sul divino "narrano e discutono sul modo di esprimerlo in maniera conveniente ai sensi umani". Che, purtroppo, dato l’esilio terrestre, sono i più poveri, i più ciechi per cogliere realtà superiori dalle quali siamo drammaticamente lontani. Neppure un bagliore ci giungerebbe se non fossimo in grado di stimolare una sorta di reviviscenza verso le cose come furono, come "sono". Del resto l’anima, nella sua discesa, cade nell’oblio delle realtà intelligibili, smarrendo qualsiasi purezza originaria. Il simulacro, certo, è approssimazione, via altamente indiretta, eppure è una delle occasioni che ci vengono date per tentare di ripercorrere a ritroso la scala della discesa. Porfirio, conscio della trappola materiale, esorta chi è ammesso al rito della risalita. Al contempo non rinuncia ad un approccio ancora oggi familiare a noi, usando la strada della spiegazione dei nomi divini su base "etimologica". Ma difficilmente è circoscrivibile la ricchezza di questi preziosi frammenti, come dimostra del resto la trapunta fitta del commento di Gabriele, 180 pagine spalancate sull’abisso del mondo classico, che il cristianesimo non riuscirà ad umiliare né addomesticare, e che vedremo rivivere splendidamente nella Firenze ficiniana.

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