sabato 26 maggio 2012

Evgeny Morozov, blogger bielorusso inquieto e critico

La dipartita di Steve Jobs fu seguita come evento collettivo, come via crucis dall’impatto globale. Difficile sapere con precisione quanto uno dei re Mida del digitale stesse pianificando tutto. Altrettanto c’è da dubitare sul fatto che egli lasciasse il minimo dettaglio al caso: non lo fece in vita, probabilmente non lo stava facendo in quei lunghi mesi durante i quali la condanna medica stava trasformandosi in viaggio senza ritorno. Lo conoscemmo in carne, ed ora, smagrito e galleggiante nel jeans e nel girocollo d’ordinanza, si presentava lo stesso sul palco. Nessuno poteva criticare, era una questione di privacy. Se qualcuno avanzava l’idea che un uomo-azienda come lui si sarebbe portato appresso, con la sua sparizione, anche l’intera ditta, la replica era secca, stizzita, urtata. Come a dire (e ciò era il massimo): ma cosa c’entra la Apple con me? A distanza di mesi si può dire che Jobs, anche in quei tempi fatali, abbia visto giusto: Apple è nei cervelli di tutti, vecchi e giovani. L’idea di un iPad ha sostituito quelli che un tempo (non troppo tempo fa) erano i pensieri intorno al computer. Jobs, il trapassato, non solo non ha condotto Apple nel luogo oscuro e senza ritorno, anzi. Quale esperto agricoltore ha ben seminato, magari pianificando le cose future ancora per anni. Certo, dopo l’iPad, cosa mai ci sarà? Ma la domanda ancora non si è infilata nelle menti del popolo, e dunque la domanda è come se non esistesse. Per ora il tempo va avanti con l’eterno presente della tavoletta. Il dopo non c’è. Sarà nel momento in cui sarà. E tanto basti. C’è ovviamente chi non si farebbe mai abbindolare da paesaggi simili: sono i tanti internauti dotati di coscienza e senso della storia, seppur breve, della rete. Sono i blogger always on line, eternamente connessi, eternamente mobilitati (l’espressione deriva da un colto saggio di Maurizio Ferraris sull’iPad), magari anche non volendolo (pur di costrizione inavvertita si tratta), che amano meditare sulla magmatica materia e sui suoi protagonisti altolocati. Steve Jobs sedeva nel più alto degli scranni, senza dubbio. Ma Evgeny Morozov, blogger bielorusso inquieto e critico, che ha fatto fortuna in America (scrive su "Wall Strett Journal", "Financial Times", "Washington Post" e altro) appartiene a quel partito che vuole tirar giù delle nubi il sant’uomo, spezzarne il mito, farlo a fette, giungere alla verità. Morozov è noto per il libro "The Net Delusion: The Dark Side of Internet Freedom", divenuto in italiano, per i tipi di Codice, "L’ingenuità della rete". Titolo, in traduzione, già su una sponda interpretativa del contenuto. Ove ingenuità sarebbe consustanziale col lato oscuro, col "dark side"; anzi, figurerebbe come copertura e conseguenza, al contempo, del lavorìo sotterraneo che, al riparo dagli sguardi degli ingenui, i veri padroni del web sono liberi di mettere in atto. E alla fine la libertà della rete sarebbe solo un parziale spiraglio rispetto alle vere possibilità. E’ Morozov a sostenere, ad esempio parlando dell’Iran, che soltanto una frazione delle comunicazioni nei giorni (che paiono così lontani!) delle poteste proveniva dall’interno del paese. La maggior parte avrebbe avuto origine all'estero, attraverso la rapida diffusione dei link che è tipica del medium digitale. Certo, anche così si alimenta l’attenzione del mondo, ma è cosa dubbia che i social network siano stati il motore più influente della protesta. O, perlomeno, l’unico, il più autentico e genuino. Si potrebbe replicare a una simile osservazione, non certo campata in aria, che comunque così la rete funziona: cioè come un gigantesco e istantaneo passa parola. Ove se una zona dell’impero digitale è debole ed oppressa, le zone più in salute possono compensare. Lo scettico Morozov vi risponderà che le rivolte sono solo una parte dell’attività della rete, la più eclatante: la normale amministrazione è ancora peggiore. Si pensi agli hacker, i quali non possono essere hacker tutta la vita. I più bravi, già lo si sa, vengono tranquillamente inglobati, fagocitati dalle multinazionali e dai governi, che impiegano tempo e fondi, molti più di quanti si pensi, alla distrazione ludica di massa dei naviganti. Così contenti di navigare, così ignari del lato oscuro. Critiche generali, queste: Morozov ultimamente pare avere preso sott’occhio un oggetto d’analisi più circoscritto. E’ appunto lo Steve Jobs con cui abbiamo aperto queste note. Il suo nuovo pamphlet s’intitola "Contro Steve Jobs". In pratica sembra derivare un lungo articolo pubblicato su "The New Republic", dove si parla di un libro di Walter Isaacson uscito subito dopo la morte di Jobs. Semplicemente "Steve Jobs". E’ il testo che tutti comprarono (in Italia uscito per Mondadori), anche coloro che in genere non sono troppo attratti dalla lettura. Ma era pur morto il grande Steve….


Dettagli

Issacson, biografo ufficiale, super-autorizzato, riempie il volume di dettagli di ogni genere, che sempre fanno piacere all’ammiratore. Di conseguenze critiche, certo, non se ne trovano poi tante in quelle seicento pagine. Ma Morozov tiene gli occhi ben aperti, e poco si lascia sfuggire. Intervistato brillantemente da Benedetto Vecchi sul "Manifesto", ricorda che Jobs fu abile "nel chiedere ai potenziali clienti di acquistare una macchina che serviva a ben poco, ma che in futuro sarebbe diventata indispensabile. La sua abilità è stata di accreditarsi come un critico verso il potere oppressivo delle big company di quel periodo". L’analisi è realistica e corretta. E’ lo stesso Isaacson a descrivere con cura i preparativi per il lancio del Macintosh. "Una giovane donna dall’aspetto ribelle sfuggiva a una polizia del pensiero orwelliana e lanciava una mazza contro uno schermo sul quale era proiettato un ipnotico discorso del Grande Fratello. L’idea catturava lo Zeitgeist della rivoluzione del personal computer". E via dicendo. Regista dello spot fu Ridely Scott, il mago di Blade Runner. Scegliendo Scott, prosegue Issacson, "Jobs poteva associare se stesso e la Apple alla filosofia cyberpunk del momento. Con quella pubblicità la Apple poteva identificarsi con i ribelli e gli hacker che pensavano in modo diverso e Jobs poteva reclamare il proprio diritto a essere identificato come uno di loro". Da dove, in ultima analisi, nascerebbe la critica asperrima, da dove l’accusa? Magari nel promettere più di ciò che il contenuto vero della macchina recava con sé. "Il popolo – ha precisato Morozov nell’intervista – ha quindi comprato quella macchina più per una ragione ideologica che per la sua effettiva utilità". Si potrebbe del resto replicare che l’abilità nel navigare fra promessa e reale valore tecnologico, in Jobs è stata assolutamente unica, e continua oggi nei punti vendita, totalmente dedicati al marchio. Ma anche oggi si acquista, col prodotto, pure una sorta di "tecnologia morale"? In effetti, ormai è difficile che la coda del mito abbia quella persistenza che pareva detenere solo qualche anno fa. iPad, iPhone e quant’altro (compresi i computer veri e propri, s’intende) sono divenuti totalmente oggetti di massa. Conservano lo status di oggetti del desiderio, ma l’aura sacrale, esteticamente linda, è andata scemando. La parrocchia Apple ha ancora i suoi sacerdoti, ben inteso, compresi i commessi dall’aria convintissima e superba, ma si ha l’impressione, un po’ paradossale, che, divenendo pura tecnologia massificata, anche quella di Apple abbia cominciato a declinare: non certo qualitativamente, s’intende (non siamo più ai tempi delle barricate e del pionierismo e del convincimento "ideologico"), visto che tali prodotti funzionano in modo più che egregio e stabile, senza sorprese o rallentamenti macroscopici; quanto sul piano di un’aura che sembra opacizzarsi, magari dissolversi. Morozov ribadisce che ancora alla Apple usano il solito mantra "think different". Ancora un po’ e saranno gli unici a ripeterlo.

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